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Tristano scarnificato

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Tristano scarnificato

Intimistico e zen. «Tristan und Isolde» per la regia di Pierre Audi
Intimistico e zen. «Tristan und Isolde» per la regia di Pierre Audi

Già dall’attacco sembra di essere a Bayreuth: niente applausi, l’opera inizia col buio che cala di colpo in sala, spiazzando il chiacchiericcio del pubblico. E sul buio entra la musica, come acqua che bagni la terra, come la prima luce a rischiarare la notte. Ci si immerge, letteralmente, nel grande fiume sinfonico di Tristan und Isolde, dove le voci si calano comode. Qui lo titolano tradotto: Tristan et Isolde. Ma se non ci fossero le didascalie in francese o le nostalgiche poltroncine della sala déco degli Champs-Elysées, potremmo immaginare di non essere a Parigi, bensì in qualsiasi altro luogo. Fuori dal tempo. Esattamente come voleva Wagner. Esattamente come ricrea Daniele Gatti.

Il direttore milanese ha sempre lavorato sul suono. Ma in questa fase della vita lo domina, lo inventa, con una facilità e una ricchezza ammalianti. La tinta che via via esce dalla buca dell’orchestra, dove siede la “sua” National de France, è davvero da “golfo mistico”: ipnotica, rapinosa. Diventa la chiave interpretativa dell’opera, il filo sul quale si scioglie il dramma. Da un lato racconta, dall’altro immagina. Nel primo atto, senti tangibile lo sciabordio del mare: onnipresente, a scandire il viaggio della nave che porta Isolde e Tristan in Cornovaglia. L’ingrediente descrittivo si trasforma però in puro oggetto d’arte: e lì Wagner si fa moderno, molto più di quanto abitualmente lo si consideri. Gatti ne stana le astrazioni materiche, pure spatolate d’acciaio, aggressive, grigie, fredde.

Si gira pagina nel secondo atto, che al contrario apre floreale, sgranato, cameristico, fatto di linee terse, che si srotolano all’infinito. La lunga notte amorosa è un giardino italiano incantato, di profumi e tenerezza. Le voci dei due protagonisti si rispecchiano su questa trama con spessori cangianti: la ragazza, da fanciulla severa diventa morbidamente appassionata; lui, prima aristocratico silenzioso, ora è un liederista sensuale. La felicità è un soffio. Le spiegazioni dovute al Re Marke, per il tradimento, impossibili. Non ci sono parole, solo l’eco del tema del Preludio: come una nuvola, lontano. Sogno finito. Così siamo già proiettati nella trama metafisica, allucinata, del terzo atto, dove un corno inglese fantastico può disegnare ghirlande come fossero improvvisate, con giochi di dinamiche che mimano spazi vicini e lontani. Senza tempo, senza mai bisogno di battere. La partitura viene plasmata morbida, per una commozione senza fine. Lo sfondo al canto finale di amore e morte di Isolde è puro velluto. Consolatorio. Tutto è placato, ricomposto. Torsten Kerl, tenore eroico, luminoso, si è spento addormentandosi. Rachel Nicholls, soprano rivelazione, adolescente forte, con qualche tratto della mitica Waltraud Meier, ma più bambina, si è tagliata i capelli (in realtà sono i suoi, cortissimi) e indossa un abito monacale con guanti neri. Osa dei “piano” di una intensità raramente sentita. L’ancella Brangäne, Michelle Breedt, mezzosoprano generoso, si è ritirata in dissolvenza; come gli altri, il Melot grottesco di Andrew Rees, il Kurwenal scrupoloso di Brett Polegato.

Resta solo il re, un saggio e appariscente Steven Humes, di importante timbro corposo, vinto che vince, al quale la regia astratta e malinconica di Pierre Audi consegna i pochi gesti indirizzati verso il mondo fuori. Perché per il resto questo Tristan si svolge tutto in una dimensione intimistica e zen. Tra pietre e panchette. Sulla linea di Patrice Chéreau, ma priva di carnalità, di emozioni. Con costumi di Christof Hetzer improponibili nel finale, da manovali trasandati. Nel dominante bianco e nero, svolgono un ruolo determinante le luci di Jean Kalman, stupende, a creare spazi e profondità nello stretto palcoscenico degli Champs-Elysées. Cinque repliche esaurite e italiani ovunque nel fine settimana. Gli applausi scroscianti, ritmati, sono talmente prolungati che Gatti fa in tempo a cambiarsi la Lacoste, con cui ha diretto, con una giacca e cravatta per i saluti in palcoscenico. In novembre con questa produzione inaugurerà la stagione dell’Opera di Roma.

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