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Capire Giona con Scholem

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Religione

Capire Giona con Scholem

  • –di Giulio Busi
Profeta. Michelangelo Buonarroti, «Giona», Roma, Cappella Sistina
Profeta. Michelangelo Buonarroti, «Giona», Roma, Cappella Sistina

Immaginate una città in cui tutte le luci si spengono alle otto e mezzo di sera. In giro per le strade non rimane anima viva, eccezion fatta per gli stranieri. Poiché è tempo di guerra, e la Svizzera neutrale è un buon posto per sfuggire a eserciti e battaglie, di forestieri a Berna ce ne sono parecchi. Sono loro ad aggirarsi inquieti dopo il tramonto, a discutere, a divertirsi, qualche volta a bere più del dovuto. Gershom Scholem ha appena vent’anni. Se n’è andato dalla Germania per sfuggire a un conflitto che non condivide. In Svizzera, assieme all’amico Walter Benjamin, Scholem studia, sogna, s’innamora. È il consueto turbine di curiosità e d’emozioni dei ventenni. Ma sono tempi straordinari, e i due –Scholem e Benjamin - non sono certo giovanotti qualsiasi.

Irene Kajon, dell’Università la Sapienza di Roma, ha recuperato alcuni scritti giovanili di Scholem, testimonianza di questo biennio bernese (1918-19), e più in generale del lavoro intellettuale del futuro storico della qabbalah durante il periodo bellico. Sono testi brevi, spesso allo stato di abbozzo, con la freschezza che aleggia sugli incompiuti letterari. Scholem è qui ancora brusco, squilibrato, e sciorina una prosa curiosamente in bilico tra filosofia e romanzo tardo-romantico. Si vede che ha letto e amato Nietzsche, e che è andato a scuola di stile da Martin Buber. Ma si coglie anche che vuol liberarsi dai maestri, e battere una strada sua, per quanto faticosa possa essere.

Quando riassumerà questo periodo, nella sua autobiografia Da Berlino a Gerusalemme, dirà di aver creduto che il popolo ebraico si sarebbe potuto rinnovare solo dopo aver incontrato se stesso. Il vero sé, la coscienza collettiva, il mistero della storia ebraica, ecco i temi che animano le pagine di Giona e la giustizia e delle Novantacinque tesi sull’ebraismo e sul sionismo. È forse nella profezia, il nocciolo dell’esperienza giudaica? «Dio è il maestro e il profeta è lo scolaro». Di questa antichissima, enigmatica scuola, il giovane Scholem esplora il metodo: «L’oggetto dell’istruzione – scrive - è l’idea di giustizia. L’educazione è una categoria religiosamente profetica». Il libro biblico di Giona è così scomposto in una curva, quasi un moto sussultorio che cattura le fasi del racconto. Un comando giunge a Giona. Questi si sottrae, fugge ed è punito. Il movimento, la tensione narrativa s’inabissa, per poi innalzarsi nuovamente nell’inno con cui il protagonista si rivolge in preghiera al Signore. Ninive si converte, ed ecco il centro del libro. Quindi la lite tra profeta e Dio, l’istruzione che questi impartisce al discepolo ribelle, e infine la domanda, che chiude il testo: «Non dovrei, io, avere pietà di Ninive?». Per un simile quesito non c’è risposta, o meglio la soluzione che il giudaismo prospetta, davanti alle strettoie del bene, è l’infinita ripetizione dell’interrogativo. Il bilancio scholemiano è lapidario: «Nella risonanza … di questa domanda si chiude, nel non detto, il circolo dell’accadere». Ancora più impervie sono le Novantacinque tesi. Pensate come regalo per il ventiseiesimo compleanno di Walter Benjamin, il 15 luglio 1918, queste proposizioni, polemiche e dense, non furono in realtà consegnate al destinatario. Scholem non era soddisfatto del risultato, che pure è notevole da molti punti di vista. Quanto a concisione e a coraggio ermeneutico, il nostro ragazzo cresciuto in fretta mostra di avere pochi rivali. A cominciare dalla prima – «L’ebraismo va dedotto dal suo linguaggio» – e per finire alla novantacinquesima – «Il nuovo cielo è il cielo senza notte» – le proposizioni sembrano voler misurarsi con il grande Benjamin, in un dialogo degno di cotanto interlocutore. Vi si trova, in nuce, la dottrina mistico-messianica del Scholem più tardo, e anche qualche balenio del messianismo à la Benjamin. Si consideri, per esempio, l'ottantacinquesima proposizione. «Il tempo del waw inversivo è il tempo messianico», dove una peculiarità grammaticale diventa segno della rivoluzione dei tempi. Come la lettera waw, preposta a una forma verbale, può in ebraico invertirne il valore temporale, così l'età messianica è il rovesciamento della storia. Tutto quello che è stato si redime, così, in quanto deve ancora succedere. Vi ricordate l’Angelus novus, quello che si lancia verso il futuro voltandogli le spalle? È probabile che quel volatile apocalittico, dipinto da Paul Klee e teorizzato da Walter Benjamin, abbia imparato a volare a rovescio in qualche lunga sera di Berna, dopo le otto e mezzo, quando per strada c’erano solo forestieri.

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