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Due collezioni Guggenheim

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Arte

Due collezioni Guggenheim

  • –di Ada Masoero
Visitatori. Eccezionale afflusso di pubblico alla mostra di Palazzo Strozzi di Firenze dedicata alle collezioni di Salomon e Peggy Guggenheim
Visitatori. Eccezionale afflusso di pubblico alla mostra di Palazzo Strozzi di Firenze dedicata alle collezioni di Salomon e Peggy Guggenheim

Non è ozioso interrogarsi su quali (altre) strade avrebbe potuto imboccare la grande arte del XX secolo senza l’azione di due collezionisti come Solomon R. Guggenheim e la nipote Peggy. Kandinsky sarebbe diventato l’idolo planetario che è, se Solomon non ne avesse acquisito decine di opere per i suoi musei? E Jackson Pollock sarebbe il mito che tutti conosciamo se Peggy non lo avesse promosso incessantemente, sin dal 1942?

È davvero difficile trovare, nel ’900, altri collezionisti influenti quanto i due Guggenheim. Lui, Solomon (1861-1949), era un vero tycoon ma sapeva ascoltare i consigli della teutonica consigliera, la baronessa e pittrice (astratta) Hilla Rebay, con cui dal 1929 prese a collezionare arte aniconica, affidandole nel 1939 la direzione del Museum of Non Objective Painting, poi migrato nel celebre edificio a spirale del Solomon Guggenheim Museum, di Frank Lloyd Wright. Quanto a Peggy (1898-1979) era sì ricca, ma non quanto lo zio. Doppiamente meritoria, dunque, la sua opera, anche per le scelte coraggiose e trasversali che seppe fare (amava dichiarare la sua equidistanza tra surrealisti e astrattisti), affidandosi, tra gli altri, a personalità come l'amico e mentore Marcel Duchamp.

Intrecciando i loro percorsi, Luca Massimo Barbero ha costruito per Palazzo Strozzi una mostra appassionante, fitta di opere magnifiche (che non a caso hanno richiamato 117mila visitatori in 72 giorni), in cui si prova come i due, tenendosi costantemente d'occhio (non sempre benevolmente), abbiano battuto strade in parte identiche, in parte no, ma sempre con risultati strepitosi.

La sede della mostra, Palazzo Strozzi, non è casuale, perché la Strozzina fu inaugurata nel 1949 proprio con la mostra della collezione di Peggy: 26 di quelle opere sono ora esposte qui.

Ad accogliere i visitatori è una sala immersa in una luce chiarissima e astratta (così sarà anche l’ultima, in una sorta di loop), nella quale i due si fronteggiano: a sinistra, sull’immagine della galleria-museo newyorkese di lei, «Art of This Century», progettata da Frederick Kiesler come fosse un’installazione, scorrono assaggi delle avanguardie amate da Peggy, dal de Chirico ferrarese a Giacometti, dal magnifico Il bacio di Max Ernst (suo fugace marito) a Uccello nello spazio di Brancusi. A destra, sull’invaso turbinoso del Solomon Guggenheim Museum, solo opere astratte: sculture di Pevsner e di Gabo e una composizione di van Doesburg. Al centro, ad annodare i loro destini, Curva dominante (1936) di Kandinsky, spettacolare dipinto che era stato di Peggy. Durante la guerra dovette venderlo alla galleria Nierendorf di New York («una delle sette tragedie della mia vita di collezionista», dirà), e di qui l’opera sarebbe presto migrata nel museo di Solomon, dov’è tuttora.

Costruita con sottili simmetrie e con accostamenti “parlanti” (nella sezione in cui si mostra l’impollinazione dei surrealisti europei, in fuga dalla guerra, sugli americani Gorky, Baziotes, Gottlieb, Clyfford Still, il dipinto L’armatura di Masson si riverbera, con le sue forme a un tempo organiche e minerali, nella scultura Corona di germogli di Jean Arp, e così accade poi nell’intero percorso), la rassegna segue una via cronologica, ma con pause in cui rende omaggio ad alcune figure centrali. Come Jackson Pollock, di cui sfilano 18 splendide opere, dall’ancora “surrealista” Donna luna (1942), ai celeberrimi dripping immortalati nel 1949 su «Life», alle carte labirintiche del 1951. E così si procede, in un andirivieni tra America ed Europa, passando dall’Espressionismo astratto americano di de Kooning, Gottlieb, Sam Francis e Hans Hofmann all’Informale europeo del dopoguerra, dove Dubuffet si confronta con Fontana, Burri con Mirko, Vedova con Tancredi e Consagra: questi ultimi, gli amori di Peggy al suo arrivo a Venezia, al pari delle opere predilette - del primo marito Lawrence Vail e di Cocteau, di Man Ray, Joseph Cornell, Francis Bacon - riunite nella saletta dedicata a Ca’ Venier dei Leoni.

La mostra ha però in serbo altre emozioni: accade nella sala della grande pittura americana del Color Field e della Post-Painterly Abstraction, dove ai vasti dipinti di Motherwell, Morris Louis, Frank Stella, Kenneth Noland fanno da contrappunto cinque impareggiabili mobile di Alexander Calder, e più che mai accade nell’oscura sala che ospita Mark Rothko, presentato da Peggy in una personale già nel 1945, quand’era ancora figurativo, e poi in seguito, quando avrebbe espresso la sua intensa spiritualità in opere totalmente astratte, di cui la mostra espone esemplari superbi. Fino agli anni ’60, con la sintesi minimale di Cy Twombly e del Fontana dei Tagli e le forme pure di Ellsworth Kelly e Barbara Hepworth da un lato, e dall’altro l’irruzione della Pop Art: a rappresentarla, Preparativi di Roy Lichtenstein, che con la sua data - 1968 - segna la soglia di ciò che verrà.

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