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Fabre misura le nuvole

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Arte

Fabre misura le nuvole

  • –di Pia Capelli
Installazione. Una della grandi opere di John Cage esposte al Forte del Belvedere di Firenze
Installazione. Una della grandi opere di John Cage esposte al Forte del Belvedere di Firenze

«C’è bisogno di cavalieri che difendano la vulnerabilità della bellezza, e quella del genere umano». Jan Fabre, l’artista belga nato ad Anversa nel 1958, noto per le sue gigantesche installazioni fatte di gusci di scarabei iridescenti ma anche per le sue creazioni teatrali controverse, è seduto di fronte a me in una sala del Forte di Belvedere, a Firenze: fuma, tossisce, si ravvia nervoso i capelli. Eppure è anche, con presenza altrettanto viva, in piedi sui bastioni, in una serie di autoritratti che vanno dall’angelico al demoniaco. È sui muri intorno a noi, nei video delle sue performance storiche, in cui si fa guerriero sconfitto, insetto grottesco con ali posticce, verme che striscia. Ed è soprattutto, calato dall’alto come un indovinello, in Piazza della Signoria: a cavallo di una tartaruga luccicante di proporzioni monumentali che, tra mille rimandi simbolici a religioni e cosmogonie, si mette in prospettiva con il monumento equestre di Cosimo I.

Questa è la prima volta nella storia che un artista contemporaneo conquista tre luoghi cardine della storia fiorentina (il terzo è Palazzo Vecchio, con una serie di installazioni che si mescolano agli arredi del museo). La mostra, intitolata Spiritual Guards, ha la direzione artistica di Sergio Risaliti, è stata curata congiuntamente tra il Belgio e l’Italia da Joanna De Vos e Melania Rossi, ed è speciale anche per l’artista, che pure è stato chiamato a intervenire sul Palazzo Reale di Bruxelles, ed è stato il primo contemporaneo esposto al Louvre. A Firenze, deve dialogare con il Rinascimento.

«Ho una relazione molto stretta con Firenze», spiega Fabre, «perché la mia prima grande mostra pubblica è stata proprio qui nel 1978, con tre grandi artisti belgi, io ero il più giovane. Ci ho passato molto tempo, conosco bene i musei della città. Ecco perché il mio Globe, esposto a Palazzo Vecchio, è ispirato proprio al globo cinquecentesco che risiede nella Sala delle Mappe Geografiche. Oggi, come allora, mi sento un nano accanto ai giganti».

In realtà, molti dei cento pezzi esposti a Firenze (e realizzati tra il 1978 e il 2016) sono di grande formato, o di dimensioni naturali, come i calchi del corpo di Fabre. Tra la Giuditta e il Davide c’è il suo Uomo che misura le nuvole, proteso con un metro verso il cielo («I miei lavori migliori sono quelli utopici», dice), mentre sui bastioni del forte Fabre diventa mille volte se stesso: angelo guerriero che sfodera una croce, uomo “leggero” che ride del peso del mondo, astronauta in tuta spaziale che con una bacchetta dirige l’orchestra dei tetti della città. Giacca tirata sulla testa, il Fabre-scultura si ripara dagli elementi accendendosi l’ennesima sigaretta, mentre un suo gemello è immerso in una vasca da bagno colma d’acqua e indica se stesso, con gesto autoreferenziale. In fila invece, sette per ogni lato, ci sono le sue incarnazioni demoniache: corna di cervo, di diavolo, di narvalo, di unicorno. E girando l’ultimo angolo, ci si trova su un campo di battaglia in cui un Fabre soldato ha lasciato pezzi di armatura: un gambale, una piastra, un elmo con le antenne che rimanda a guerre aliene, o future.

Tutte installazioni intensamente simboliche ma anche potentemente corporee: «Per me è sempre stata importante la saggezza del corpo. La comprensione passa attraverso il mio corpo, dal cervello giù fino ai piedi: è in questo corpo che ci svegliamo ogni mattina, e può essere una trappola, diventare il primo ostacolo. Io ho sempre imparato molto dai corpi altrui, e dal mio: il corpo dice la verità, non sa mentire», dice.

Non sempre i corpi usati da Fabre sono universalmente apprezzati: dallo scoiattolo morto messo in bocca ad un teschio dentro Palazzo Vecchio (che ha suscitato qualche smorfia), passando per l’uso che ha fatto di decine di migliaia di scarabei (inviso agli animalisti), fino ad arrivare ad alcune sue pièces teatrali “più che nude”, che hanno fatto fuggire gli spettatori, Fabre è anche sempre artista che crea tensioni, amori e odi, in bilico com’è tra il sublime ed il crudele. «Tutto il mio lavoro ha a che fare con la celebrazione della vita, ma anche con l’accettazione della morte, che è una parte importante della vita. Io non parto mai con l’idea di provocare, voglio evocare, piuttosto», precisa lui. Ma Fabre si considera un artista più intellettuale o emotivo? «Il mio lavoro si basa sulle tre I: l’istinto, l’intelligenza, l’intuizione. Anche i corpi morti hanno a che fare non con la crudeltà ma con la vulnerabilità», spiega pacato: «Io credo che i miei lavori abbiano regole proprie, contengano enigmi, e siano tutto sommato migliori di me».

I riferimenti all’intelligenza e alla difesa degli ideali tornano soprattutto nei pezzi che danno titolo alla mostra: i quattordici scarabei che Fabre ha disposto nei punti strategici del forte. Recano sulle elitre una croce, o un bastone. Sono, come la tartaruga, simboli antichi che parlano di tempi fuori dal tempo, e riescono a essere, come Fabre, rassicuranti e inquietanti al tempo stesso. E lui, che in questa mostra è «cavaliere della disperazione e guerriero della bellezza», spiega così la potenza del suo lavoro: «Credo abbia a che fare con la mia passione e la mia onestà. O con la mediocrità del mio genio - che è già qualcosa, no?».

Al momento di andare (lo chiama il sindaco Nardella, che gli ha appena consegnato le chiavi della città), Fabre si accorge che non ho un catalogo e mi regala il suo. La dedica sarà: «Always defend Beauty». Difendere sempre la Bellezza.

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