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La corteccia del criminale

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NEUROSCIENZE E LIBERO ARBITRIO

La corteccia del criminale

  • –di Pietro Pietrini
Un detenuto si sottopone volontariamente a un esperimento con un elettroencefalografo al Maudsley Hospital di Londra, 1949 (GettyImages)
Un detenuto si sottopone volontariamente a un esperimento con un elettroencefalografo al Maudsley Hospital di Londra, 1949 (GettyImages)

Se la coscienza può essere definita come «tutto ciò che scompare quando cadiamo in un sonno senza sogni» (Giulio Tononi), possiamo dire che il libero arbitrio è «quel che scompare quando rispondiamo in maniera automatica ai nostri istinti, alle nostre pulsioni, ai nostri bisogni». Ogni definizione rischia certo di apparire riduttiva, trattandosi di una questione che, nata all’alba del pensiero umano, via via nei secoli ha coinvolto filosofi, scienziati e giuristi. Piuttosto, intendiamo offrire una definizione operativa, prettamente neuroscientifica o neurologica se si vuole, della questione, per comprendere meglio il contributo che deriva dalle nuove conoscenze della ricerca neurobiologica e le sue potenziali implicazioni.

La definizione proposta calza a pennello con quello che, in natura, è senza dubbio il modello più chiaro di ciò che è libero arbitrio o, per rimanere nella prospettiva della definizione, di ciò che accade quando il libero arbitrio si dissolve come neve al sole: la demenza frontale. Nella persona colpita da decadimento frontale, qualunque pensiero prende voce, qualunque impulso diventa atto, in un drammatico sonno della ragione che genera mostri del nostro agire. Non vi è più alcuna capacità di modulare la risposta all’istinto, qualsiasi esso sia e in qualsiasi momento esso si manifesti. Il paziente si comporta senza vaglio alcuno del contenuto, delle modalità o delle circostanze. Le pulsioni sono agite, hic et nunc.

La storia della malattia che raccontano i famigliari ripropone da paziente a paziente somiglianze impressionanti a quella che appare una vera e propria trasfigurazione dell’essenza della persona. La moglie di un mio paziente mi raccontò che suo marito era stata la persona più gentile, affettuosa e attenta ai suoi bisogni e desideri che avesse mai conosciuto; «ora - mi disse in lacrime - potrei cadergli morta ai piedi e lui mi scavalcherebbe per andare al frigorifero ad ingozzarsi senza fine».

L’antica questione di quanto sia veramente libero il nostro agire ha ritrovato rinnovato vigore dal grande sviluppo delle neuroscienze cognitive. A partire dalla metà degli anni ’80, le cosiddette metodologie di neuroimaging hanno reso possibile una sempre migliore definizione della meravigliosa architettura morfologica e funzionale del cervello umano. Oggi possiamo visualizzare anche i più fini dettagli della struttura encefalica, misurare lo spessore e la densità neuronale nelle diverse aree della corteccia cerebrale, identificare i fasci di fibre che, come tanti sottili cavi elettrici, connettono tra loro le varie zone del cervello.

Non solo, con la risonanza magnetica funzionale (fMRI), in un certo senso possiamo vedere il cervello in azione, vale a dire cosa succede nel nostro cervello quando compiamo una qualsiasi della miriade di attività quotidiane - da percepire un raggio di luce o muovere un dito a prendere una decisione, inibire un impulso o scegliere tra il bene e il male.

Tutte quelle attività necessarie per mettere in atto un comportamento volontario - pianificazione, processi decisionali, pensiero astratto, giudizio morale, rispetto delle norme etiche, controllo degli impulsi - sono intimamente connesse alla funzione della corteccia frontale - come ben dimostrano le conseguenze di lesioni di questa area. Non a caso questa è la parte del cervello che nel corso dell’evoluzione si è sviluppata di più nell’essere umano rispetto agli altri animali.

Gli studi sulle basi cerebrali che sottendono la capacità di agire nel rispetto delle norme sociali e delle leggi, ripropongono la questione se gli psicopatici criminali siano tali per una propria decisione consapevole o siano invece così per la presenza di qualche alterazione morfologica o funzionale nelle strutture cerebrali che regolano il comportamento sociale, quel che gli anglosassoni definiscono come BAD, malvagio per scelta, o MAD, cattivo perché malato.

Già Henry Maudsley, psichiatra inglese della seconda metà del XIX secolo, pensava che gli psicopatici fossero dei «ciechi emotivi», incapaci di sentire emozioni così come un daltonico è incapace di percepire certe lunghezze d’onda della luce o un individuo privo di orecchio musicale non riesce a distinguere suoni di altezza diversa. Gli studi degli ultimi anni con risonanza magnetica cerebrale ci mostrano che il cervello degli psicopatici criminali ha un quinto in meno di neuroni nelle aree della corteccia prefrontale deputate al controllo del comportamento rispetto ai soggetti sani di controllo. Non solo, i fasci di fibre che collegano l’amigdala - il computer emotivo del cervello - alla corteccia orbito-frontale - che controlla l’espressione di aggressività - sono anche essi significativamente ridotti negli psicopatici rispetto ai soggetti sani.

Questi studi non ci dicono se l’individuo psicopatico è tale perché ha queste alterazioni cerebrali o se ha queste alterazioni cerebrali perché è psicopatico - il problema dell’uovo e la gallina. Ma ci rivelano che ci sono delle differenze, che tali rimangono anche dopo aver preso in considerazione possibili fattori alternativi, quali abuso di alcool e droghe o traumi cranici, certamente più frequenti negli psicopatici.

Le nuove acquisizioni delle neuroscienze, unite a quelle della genetica comportamentale, hanno implicazioni che vanno ben oltre il confine delle scienze mediche, e toccano questioni essenziali che riguardano anche la filosofia, l’etica e la giurisprudenza e persino la politica.

Torna alla mente quello che Platone scriveva duemilacinquecento anni fa, quando le neuroscienze non esistevano: «Perché malvagio nessuno è di sua volontà, ma il malvagio diviene malvagio per qualche sua prava disposizione del corpo e per un allevamento senza educazione, e queste cose sono odiose a ciascuno e gli capitano contro sua voglia»(Timeo, 86e).

Comprendere la natura dell’umano agire, soprattutto «deviante», è una sfida che affascina da sempre.

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