Con la morte, dolorosa, di Paola Barocchi si allontana da noi una figura impareggiabile di studiosa, una maestra di stile e di vita. Come usa nei rituali accademici, potremmo qui ripercorrerne la bibliografia vasta e coerente, ma più conta provare a coglierne la sostanza. Facendo centro su una lettura ravvicinata e dinamica delle fonti scritte (sempre nutrita di nuove e immaginative ricerche d’archivio) il suo lavoro promosse una storia dell’arte multiforme e instabile, preoccupata più di agganciare la storia letteraria, culturale, politica, sociale, che di difendere la propria pretesa autonomia da tutto il resto. Del suo maestro Roberto Longhi Paola Barocchi non prese la scrittura ispirata e magnetica, non l’abilità rabdomantica di stabilire con uno sguardo e dieci righe nessi indubitabili, dall’attribuzione al necessario “viaggio d’artista”, non la sprezzatura con cui liquidare astrusi o pedestri biografismi. Ne prese invece l’invito, raramente esplicito ma sempre sotteso, a vedere il lavoro degli artisti sullo scenario del mondo come un intarsio d’intenzioni sì, ma anche di interazioni. In quell’intreccio non c’è quadro né scultura che non rifletta, anche, il gusto del committente, le tensioni religiose, le competizioni fra botteghe, le esaltazioni e le crisi della politica locale e “globale”, la tessitura di una società che muta forma a ogni passo, e in cui s’intersecano senza mai fermarsi le linee di forza dell'economia, del costume, delle pratiche socio-culturali diffuse.
Lo studio delle fonti fu dunque per lei come una continua, assidua verifica, condotta sulla parola scritta, di quella storia dell’arte che nessuno come Longhi aveva saputo praticare e imporre sulla superficie dipinta. Paola Barocchi cercava nei testi (da Vasari alle lettere d’artista, specialmente Michelangelo, agli inventari manoscritti, a oscure o insigni carte d’archivio) non banali conferme a quel che le opere d’arte già di per sé ci dicono, ma anzi voci parallele, notizie contraddittorie, ipotesi di lettura alternative. Insomma, la trama di una vita remota a cui farsi contemporanei, per poi riportarla nella dimensione del nostro presente. Perciò questa studiosa del Cinquecento (specialmente fiorentino) volle donarci anche una Storia moderna dell’arte in Italia in più volumi (Einaudi, poi Electa), in cui registrare con implacabile esplorazione il passaggio «dalla pittura di storia alla storia della pittura» intorno alla soglia del 1900. Costruzione, intenzionalmente esemplare, di una raccolta di testi che, per essere a noi più vicini nel tempo, potessero render chiare a un tempo e l'autentica prossimità degli scritti sull’arte alla pratica artistica, e l’inevitabile arbitrarietà e parzialità di ogni antologia.
Ma quel che di Paola Barocchi giganteggia nel ricordo non è solo questo. Orgogliosamente convinta dell’utilità del proprio lavoro di ricerca (nell’Archivio di Stato di Firenze, china su documenti ancora in attesa d’esser letti, riprendeva forza e slancio, come Anteo al toccare la madre Terra), Paola Barocchi ebbe di sé un fortissimo, ascetico senso del limite. Perciò, e non per la vanità del professore che voglia imporre allievi sulle cattedre, non si limitò a trasmettere il suo insegnamento in aula (insegnò dal 1968 in quella Normale in cui, sotto la direzione del fisico Gilberto Bernardini, furono chiamati anche Pugliese Carratelli e Momigliano, Garin, Fubini, Contini, Nencioni...). Accanto all’insegnamento, Paola Barocchi volle inventare istituzioni per la trasmissione di un sapere, il suo, che nel dialogo con i più giovani prendeva e mutava forma. Tale fu il precocissimo Centro di ricerche informatiche per la storia dell’arte della Normale, improvvidamente smantellato in anni recentissimi, tale la Fondazione Memofonte che le sopravvive, diretta da Donata Levi. Entrando nell’arena informatica nei primi anni Ottanta, Paola Barocchi non inseguiva una moda, introduceva un costume di ricerca: non per niente i due primi convegni a misura mondiale sul tema furono co-organizzati dal Getty Art History Information Program di Los Angeles e dalla Normale (dove si svolse nel 1984 il secondo convegno su Automatic Processing of Art History Data and Documents). Fu dunque un’autentica intuizione di ricerca (e non un passivo “aggiornarsi”) che spinse Barocchi (e la Normale) all’avanguardia del settore.
Indimenticabile, inimitabile fu lo stile personale di Paola Barocchi. In Normale volle accanto a sé altri studiosi di storia dell’arte, da Enrico Castelnuovo a Mimita Lamberti, a me che sto scrivendo (per non dire dei ricorrenti inviti a Francis Haskell o a Paolo Fossati), diversi eppur simili per desiderio di formulare e di trasmettere alle nuove generazioni più domande che risposte. Generosissima di sé, delle sue conoscenze e del suo tempo, fino agli ultimi suoi anni (era nata nel 1927) cercò la conversazione con i più giovani, eppure sempre punì se stessa di colpe inesistenti costringendosi entro un’austerità di vita e di costumi che la faceva apparire quasi monacalmente devota agli studi, con una vita interiore che s’indovinava ricchissima ma pareva inaccessibile. Come Giacobbe, Paola Barocchi sembrò lottare perpetuamente con un angelo senza nome, in una ricerca insonne che si alimentava insieme della voce di antichi documenti e dello sguardo di nuove generazioni di allievi. Per questa tensione che pareva (e non fu mai) sopita entro un superiore equilibrio, l’eredità di Paola Barocchi è difficilissima. Ma resta viva.
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