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La vestaglia di George Sand

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La vestaglia di George Sand

  • –di Elisabetta Rasydi Elisabetta Rasydi Elisabetta Rasydi Elisabetta Rasy

In uno degli ultimi seminari che tenne al Collège de France poco prima della sua scomparsa, quello intitolato La preparazione del romanzo, Roland Barthes disse che aveva incominciato a interessarsi alle vite degli autori, cioè, come la definì, alla «nebulosa biografica», fatta di lettere, diari, memorie, «per reagire al freddo delle generalizzazioni» e per «rimettere nella produzione intellettuale un po’ d’affettività “psicologica”» . Se una lunga tradizione di rigore interpretativo sostiene che l’opera parla da sé, senza bisogno di informazioni biografiche sull’autore, è innegabile che, come suggeriva l’indimenticabile semiologo francese, aggirarsi nelle nebulosa biografica degli scrittori può riscaldare il rapporto con i loro libri. Ma la vita di tutti, anche degli artisti, non è fatta solo di quegli eventi significativi che scandiscono il corso degli anni , è costruita, forse soprattutto, da una quotidianità intessuta di sogni, bizzarri bisogni, vizi, tic, manie e personalissimi piaceri necessari alla sopravvivenza. Qui è andato a indagare, munito di una lente di ingrandimento intellettuale per non perdere alcun dettaglio, Giuseppe Scaraffia nel suo nuovo libro, Il demone della frivolezza, che aggiunge un ulteriore capitolo alla sua ricerca sulle mythologies, per restare nel lessico di Barthes, della preparazione della modernità.

Ecco dunque una serie di celebri personaggi – della letteratura, dell’arte, del gran mondo – intrappolati o piuttosto inchiodati al loro lato frivolo, specchio molto spesso dell’intero carattere. Divertente e sapiente, il libro è costruito come un vero dizionario, che comincia con la parola «anello» e finisce con la parola «vestaglia». Proprio qui, nell’ultimo lemma, scopriamo che il lato frivolo talvolta si coniuga con quello drammatico: questo familiare indumento casalingo fu accuratamente scelto da Romain Gary - quando decise di suicidarsi - di un bel colore rosso fuoco per coprire il sangue, e George Sand lo brandì per smascherare la misantropia e la riottosità sociale di Flaubert . «Tu vivi nella tua vestaglia, il grande nemico della libertà e dell’attività», lo rimproverò in una lettera.

Ma tra i tanti oggetti con cui Scaraffia compone il suo mosaico dei piaceri dell’intimità e della quotidianità i più suggestivi sono quelli che il nostro tempo convulso ha cancellato o confuso in una miriade di merci anonime. Per esempio, il bastone da passeggio, una volta compagno essenziale di ogni gentiluomo povero o ricco che fosse, ha sempre una storia da raccontare, o addirittura una favola: «A Cocteau una di quelle canne démodé fatte di un solo pezzo di legno, apparve addirittura in sogno. Ce n’erano ben trenta esemplari in un negozio di Harrow con un coccodrillo in vetrina. L’indomani era partito per l’Inghilterra dove, contro ogni previsione, aveva trovato i bastoni del sogno e li aveva comprati al prezzo stabilito la notte prima». E c’era qualcosa di fiabesco anche nelle prime fotografie, magia bianca e magia nera. Ruskin a Venezia sosteneva che fotografare la città era «quasi come portarsi via i palazzi». Mentre Flaubert scrive a un’amante: «Non mandarmi il tuo ritratto fotografico. Io detesto le fotografie nella misura in cui amo gli originali. Non le trovo mai vere. Questo procedimento meccanico, soprattutto applicato a te, mi irriterebbe più che farmi piacere». Gli oggetti, se si è capaci di ascoltarli come suggerisce l’autore del Demone della frivolezza, ci fanno ascoltare anche la voce dei filosofi. Come nel caso di Kierkegaard e del suo ombrello: «Mi è diventato così caro che non esco mai senza, che piova o ci sia il sole; anzi proprio per mostrargli che non lo amo solo per la sua utilità , talvolta cammino avanti e indietro sul pavimento della mia stanza e faccio finta di essere fuori; mi ci appoggio, lo apro, mi puntello il mento con il manico…».

Nella nostra era no smoking, struggente il capitolo dedicato ai sigari, con il bellissimo elogio del fumo di Mario Soldati: «Siamo troppo deboli per rinunciare a questo velo profumato e impalpabile che ci stendiamo intorno, tra noi e la tragedia, qualche volta atroce, del vivere. A non fumare, si rischia troppo». E con l’indignazione che un fiero Cesare Pavese esternò a Einaudi: «Spettabile Editore, avendo ricevuto n.6 sigari Roma – del che Vi ringrazio – e avendoli trovati pessimi, sono costretto a rispondervi che non posso mantenere un contatto iniziato sotto così cattivi auspici». Poi le cose andarono diversamente: forse l’editore pentito gli mandò sigari migliori.

Questa collezione di ritratti costruiti per dettagli, senza la pesantezza della figura a tutto tondo, non sono però fatti solo di oggetti. Nei piaceri e conforti della vita quotidiana ci sono i luoghi, dal deserto al Grand Hotel, le abitudini sessuali, il gusto intramontabile del gossip, i flirt. E c’è anche la scrittura, le lente corrispondenze di una volta che segnavano il tempo interiore, con l’ansia di comunicare e il tormento dell’attesa della risposta. E c’è la ormai dimenticata e specialissima arte dei telegrammi. In una gara di abilità in questo difficile ambito il vincitore è D’Annunzio. Scrive Scaraffia che il Vate per sedurre approfittava della perentorietà che emanava da quelle scritture concentrate e che una volta in un solo giorno spedì quattro telegrammi, ognuno con la sua tonalità, ad altrettante signore. Normale: «Sono arrivato oggi e preparo una stanza per te. Il tempo è delizioso. Arrivederci Gabri». Sentimentale: «La melodia delle maree culla i miei rimpianti. Tutto è lontano e tutto è vicino. Arrivederci. L’esiliato». Sbrigativo: «Penso a te ogni istante. Ariel». Consolatorio: «Penso a te come al bronzo più ricco per le mie statue future. Non essere triste. Arrivederci. Arrivederci».

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