Cultura

Nel buio si vede di più

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Scienza e Filosofia

Nel buio si vede di più

Da più di 10 anni, più di un milione di persone ha partecipato a un’istruttiva e commovente esperienza offerta dall’istituto ciechi di Milano: «Dialogo nel buio». Il visitatore viene guidato da un cieco in una serie di sale completamente buie, e si rende conto subito di due cose contrastanti: di quanto è prezioso il senso della vista, che è abituato a dare per scontato; e di quanto sia immediata la sua capacità di attivare, in sua sostituzione, le potenzialità di altri sensi, l’udito e il tatto, al punto che i sensi appaiono sorprendentemente traducibili l’uno nell’altro. È commovente che tutto ciò avvenga sotto la guida di un cieco, che al buio può ritrovarsi su un piano di parità, anzi di vantaggio, rispetto a una quotidianità vissuta costantemente all’insegna di un handicap. In una situazione simile si trova uno dei personaggi che animano i racconti di Mauro Marcantoni, direttore di tsm-Trentino School of Management, che troverete allegati nel prossimo numero di Domenica con il titolo Controluce. Elio vuole fare teatro, ma non vuole fare teatro tra ciechi. Si iscrive a un normale corso cui partecipa gente altrettanto motivata, ma che non aveva previsto la sua presenza. Elio registra tutti gli imbarazzi, i silenzi, i tentennamenti, dei suoi compagni di corso, ma anche l’autenticità di alcuni e l’aggressività di altri, scocciati per doversi misurare con la presenza di un cieco. Marcantoni disegna con grazia il modo in cui Elio riesce a conquistare la fiducia dei compagni e della compagne e a fare teatro con loro per la soddisfazione di tutti. Al secondo incontro, l’insegnante li aveva fatti salire tutti sul palco bendati. «A turno – dice Elio - ho accompagnato ciascuno in un rapido percorso al buio, e in questo breve viaggio hanno misurato la loro capacità di affidarsi a me, di fidarsi di un cieco, mentre io ho sentito le loro fragilità, le insicurezze, la voglia di sperimentare, la capacità di rischiare, la disponibilità a giocare, la rigidità della paura». Ecco qual è la bellezza di questi racconti. Quella di farci capire che tutti condividiamo la medesima fragilità: che nella sostanza, anche se abbiamo il vantaggio di vedere (e non è certo un vantaggio da poco), la nostra vita e quella di un cieco non sono diverse. «Non è facile da sostenere l’incertezza che sperimento ogni giorno – dice la protagonista di un altro racconto –, ma devo imparare a gestirla se non voglio rinunciare alla mia autonomia. Così, quando cado mi rialzo, impreco un po’ e riprendo il cammino. Sembra la metafora della vita: un’altalena ininterrotta di alti e bassi che rompe schemi pre-definiti, generando una continua precarietà». Eppure in questi racconti aleggia continuo il senso di una felicità possibile, e che va aldilà della disperazione o dei possibili autoinganni, ma che si nutre invece di un sano realismo psicologico. Perché come ben sanno gli psicologi dopo i pionieristici lavori di Daniel Kahneman, la felicità dipende assai più dalla propria forza interiore che dalle circostanze esterne o dai nostri limiti. C’è molto di autobiografico in questi racconti, dove Marcantoni mostra una consapevolezza straordinaria dei disagi psicologici che un cieco può generare: «Devo decidere se diventare l’aguzzino di chi mi ama con richieste e lamentazioni continue, o accettare la sfida, sapendo che sarà difficile». «Quando ho rassegnato le dimissioni dal mio impiego di dirigente pubblico, mi hanno considerato più presuntuoso che incosciente (...). La cecità mi ha aperto altri orizzonti e mi ha costretto a riflettere su me stesso, su quello che ero e che sarei potuto essere. Mi ha dato una rappresentazione diversa del limite, della finitezza umana e di come questa finitezza possa divenire stupore, scoperta, conquista».

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