Cultura

Fare a pugni con l'invisibile

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Cassius clay

Fare a pugni con l'invisibile

  • –di Camilla Tagliabue

Scriveva Norman Mailer: «Se i pesi massimi diventano campioni cominciano ad avere una vita interiore come Hemingway o Dostoevskij, Tolstoj o Faulkner, Joyce o Melville, Conrad o Lawrence o Proust». Così la pensa certamente anche Alban Lefranc, poeta e traduttore, nonché autore di biografie romanzate: l'ultima, che gli è valsa pure il Grand Prix Sport et Littérature 2013, è un'ardita affabulazione della vita di Muhammad Ali, prima però che il protagonista diventasse Muhammad Ali. Il tranche de vie si ferma infatti al 25 febbraio 1964, giorno in cui il ventiduenne Cassius Marcellus Clay Jr. conquistò per la prima volta la corona di Campione del Mondo dei pesi massimi, scippandola all'allora titolare Sonny Liston. Anziché stordirsi di alcol e donne fino all'alba, il mattino seguente l'acerbo pugile festeggiò la vittoria convertendosi all'Islam e cambiando definitivamente nome. Ma questa è un'altra storia.

Su questo Ring invisibile va in scena l'eroe ancora in bozzolo, il bruco che si prepara a «volare come una farfalla e pungere come un'ape»: ha tredici anni Cassius quando decide di diventare «The Greatest of All Time».

Suo padre, un pittore d'insegne alcolizzato, gli ha appena raccontato l'atroce sorte di Emmett Till, suo coetaneo adolescente e afroamericano, massacrato di botte a Money, nel Mississippi, per aver osato guardare negli occhi una donna bianca. È il 1955; sono passati più di ottant'anni dalla Guerra di Secessione, eppure il razzismo è un mostro duro a morire. E Cassius non vuole morire, né finire con il volto maciullato come Till: «Emmett, tu che non conosci la regola d'oro della distanza e della vicinanza, Emmett, povero cicalante imbecille, fratello mio massacrato, ti prometto che non permetterò a nessuno di avvicinarsi a me. Ascolta, Emmett, ascolta la mia promessa: a te che non hai più una faccia, io darò la mia. Andrai per il mondo con i miei occhi e la mia bocca, sotto la protezione dei miei pugni».

Alternando prima e terza persona singolare (ma compare anche la prima plurale), prosa e versi, descrizioni e flussi di coscienza, Lefranc tesse un romanzo come fosse un salmo, seducente e musicale, senza farsi mancare qualche effettaccio o scivolone retorico, peraltro perdonabili quando si mercanteggia con sangue e sogni, corde e chimere. Fu lo stesso boxeur a dichiarare: «I campioni non si fanno nelle palestre. Si fanno con qualcosa che hanno nel loro profondo: un desiderio, un sogno, una visione». L'apprendistato di Clay Jr. è simile a quello di un ballerino di classica: «Il ring è sessioni di tre minuti di danza, schivate e colpi» e lui si farà «maestro di distanza», con una tecnica improbabile e aggraziata, incompreso dagli allenatori e disprezzato dagli avversari. Persino dopo l'Oro ai Giochi di Roma nel 1960, i detrattori serpeggiavano: «Cassius chi?... Pareva avesse vinto le Olimpiadi da mediomassimo (lo ripeteva di continuo, brandiva la medaglia davanti alle telecamere), ma le Olimpiadi erano un ripiego per dilettanti, una boxe completamente diversa... Era un po' come il fioretto, una cosina caruccia, di cui non importava niente a nessuno. Clay era la vergogna di questo sport, il campione dei balletti russi, la fragile ballerina».

L'autore si diverte a dissipare l'aura mistica e picconare la granitica fama del pugile, abbozzandone un ritratto grottesco, ai limiti della credibilità: Cassius straparla; ha la pressione alta; ha paura di volare; si siede in aereo con un paracadute addosso e una donna, cui dare l'ultimo bacio, accanto; è ossessionato dal sangue sulla faccia; odia «gli appiccicumi, i liquidi, le lacrime, l'alcol, i sentimenti, gli abbracci, i baci, le rimpatriate»; «gode senza eccessi e a giorni fissi». Lo scrittore è un abile truffatore, «ama raccontare le vite degli altri mescolando con audacia il dato biografico alla licenza narrativa», si legge in terza di copertina. Qui confonde realtà e finzione, scritturando nel suo script personaggi come Falstaff e Karamazov e declassando a fiction di bassa lega qualsiasi altra storia su Ali il campione: «Il seguito, i quindici anni di gran carriera fino al mio ritiro dal ring all'inizio degli anni Ottanta, non mi appartiene», afferma il Cassius di Lefranc. «Qualsiasi giornale del pianeta ha già pronto il mio necrologio. I fatti sono perfettamente catalogati. Mi attribuiscono anche grandezza d'animo. Quando i miei ex avversari finiscono all'ospedale, il mio ufficio stampa dice che prego per loro. Dio se l'è filata chissà dove. Ma prendo comunque l'aereo il più spesso possibile, nel caso si ricordi della profezia. Così la finiamo».

Questo finto Cassius Clay ricorda il vero Arthur Cravan, poeta dadaista e pugile, nato nel 1887: alto quasi due metri e degno nipote di Oscar Wilde, si sentiva un dandy nel corpo statuario di un atleta. Famoso a tutti per i suoi eccessi, sul ring e nella vita, si sfogava con l'amico di penna e illustre collega: «Signor Gide, preferisco di gran lunga la boxe alla letteratura. Tutta la letteratura è bla bla bla bla bla bla. L'arte, l'arte, chi se ne infischia dell'arte! Presto per strada non si vedranno che artisti e dovremo soffrire tutte le pene del mondo per scovare un uomo. La prima condizione per un artista è sapersi battere. Dove sono le gambe, la milza e il fegato?». A fare a pugni con l'invisibile si finisce al tappeto.

Alban Lefranc, Il ring invisibile, 66thand2nd, pagg. 1520, € 15,00
Il Sole 24 Ore
02 febbraio 2014

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