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La natura non serve a niente (ecco perché è essenziale)

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La natura non serve a niente (ecco perché è essenziale)

E se la psicologia cognitiva salvasse l'ecologia?
Si sente ripetere spesso in radio e sui giornali che bisogna proteggere la natura, perché questa ci fornisce moltissimi servizi: le foreste e gli oceani captano il carbonio e limitano il riscaldamento climatico, la biodiversità permette di scoprire nuove molecole, le api impollinano le nostre colture, ecc. In pratica, per costruire un discorso ecologista, gli argomenti utilitaristici (che insistono sui servizi resi dalla natura) devono essere manipolati con precauzione, perché nel momento in cui si attribuisce a un oggetto un valore utilitario si sottintende che questo stesso oggetto è rimpiazzabile, che la sua sostituzione con un altro oggetto che svolga almeno altrettanto efficacemente la stessa funzione risulterebbe priva di conseguenze. Quanto al prestare alla natura un valore intrinseco (indipendente dai servizi resi agli esseri umani), il rischio è di non smuovere che coloro i quali ne sono già convinti.

Immaginiamo che si scopra un nuovo materiale, di cui si potrebbero ricoprire le strade e che captasse il carbonio molto più efficacemente delle foreste, che si fabbricassero delle piccole api elettroniche che impollinassero in fretta e furia, e, più genericamente, che ogni servizio reso oggi dalla natura fosse supplito domani dalla tecnologia, in modo più efficace e senza generare effetti secondari – si può certo dubitare che tutto ciò sia possibile in pratica, ma proviamo a immaginare… Sarebbe sufficiente perché, in buona fede e quasi con gioia, si rasassero al suolo le foreste e si sterminassero le api?

Realtà virtuali
Per rispondere in modo negativo, si pensi ai servizi più astratti: la natura è un oggetto di contemplazione, di meraviglia e di esaltazione, un luogo di svago e di distensione, ecc. Ma è pur vero che ci sono altri oggetti di contemplazione e di stupore (le opere d'arte, per esempio), e in più noi saremo capaci, senza dubbio molto presto, di fabbricare delle foreste artificiali più belle ancora delle originali, popolate di repliche perfette di specie scomparse, mentre un dispositivo di realtà aumentata ci permetterà di vivere lì immersi delle esperienze di un'intensità senza pari. Si sente chiaramente che qualcosa zoppica in questo grande cambiamento, ma che cosa?
Per comprendere, bisogna risalire alle nostre origini. Il nostro cervello, come il resto della nostra anatomia, è profondamente plasmato dalla nostra storia evolutiva comune. Quella di cacciatori-raccoglitori che evolvevano in un ambiente debolmente segnato dalle attività umane, e dove era molto utile reperire e interpretare le tracce di tali attività (un segno lasciato su un sentiero indicante l'ostilità o l'amicizia di una tribù che ci si apprestava a incontrare, i resti minimi di un pasto sulla riva di un fiume, un manufatto di cui si doveva cercare di capire la funzione, ecc).
Era talmente essenziale per i nostri antenati non perdere le tracce di un'intenzionalità umana che abbiamo conservato la tendenza a sovra attribuire delle intenzioni – un movimento anodino delle orecchie del nostro gatto è interpretato come un atto comunicativo complesso, mentre un difetto del nostro computer ci sembra celare un'intenzione di nuocere (1). La tendenza a scorgere delle intenzioni dietro a degli eventi puramente naturali è considerato perfino come un motore della genesi di talune credenze religiose (2).

Sulle tracce dell'uomo
L'ambiente è molto cambiato: oggi le tracce delle azioni umane sono infinitamente più numerose, in città saturano quasi lo spazio. L'attenzione è sollecitata permanentemente. In questi ultimi decenni le scienze hanno mostrato a che punto questa attrezzatura cognitiva sia sofisticata e quanto noi sottostimiamo la sua importanza nelle nostre attività quotidiane. I processi consci e inconsci grazie ai quali noi prestiamo agli altri degli stati mentali fondano non soltanto la percezione e l'interpretazione dei comportamenti altrui ma anche tutte le forme di comunicazione (verbale e non verbale), la percezione degli artefatti o ancora l'apprezzamento delle opere d'arte (3).

Così, dietro ogni comportamento, traccia o segno prodotti dalle attività umane (e in modo tanto più intenso quanto questi segni denotano un'intenzione di comunicare, in una pubblicità per esempio), noi riscostruiamo automaticamente, incessantemente e per la maggior parte del tempo senza rendercene conto delle intenzioni, delle credenze, dei tratti caratteriali, delle emozioni, ecc. Al contrario, in un ambiente debolmente marcato dalle intenzioni umane, tutti questi processi di attribuzione di stati mentali – che fanno la parte del leone nello spirito umano – sono a riposo o, piuttosto, lasciati più liberi di generare la loro attività dall'interno, senza determinazione permanente dalle proprietà percettive del contesto. L'immaginazione può dunque dispiegarsi nutrendosi in modo attivo, e non più subito, dell'ambiente percettivo.

Calma e riposo
È per questo che anche il cittadino più convinto, anche colui che dice di essere allergico agli alberi e agli uccellini, riconosce che un week-end in campagna ha qualcosa di riposante o, almeno, che permette di mettersi in uno stato psicologico diverso. Numerose esperienze di psicologia cognitiva confermano questa intuizione. Per esempio, in seguito a uno sforzo intellettuale, una breve passeggiata in un ambiente naturale permettere di recuperare più efficacemente le proprie facoltà di concentrazione rispetto a una passeggiata in un contesto urbano. Differenze nei benefici tanto cognitivi quanto emozionali possono essere misurate paragonando l'effetto di osservazione di un paesaggio più o meno naturale da una finestra o perfino guardando immagini che rappresentano ambienti più o meno naturali; ciò dimostra che questi effetti benefici non sono dovuti unicamente alla calma tipica di ambienti meno antropizzati (4).
Si comprende allora il problema della foresta virtuale : dal momento che essa è il frutto di un lavoro umano, passeggiarci genera un'attività psicologica molto più simile a quella prodotta da una passeggiata in città che dal fatto di gironzolare in una foresta reale. Se bisogna preservare una parte di natura sulla terra, nel senso di uno spazio debolmente segnato dalle attività umane (e il compito non è semplice, perché un progetto di salvaguardia implica già una qualche intenzionalità) è semplicemente perché essa offre un contrappunto tanto necessario alle attività umane quanto insostituibile.
La natura offre una «cosa altra», per riprendere un'espressione cara ai personaggi di Romain Gary. Anche l'innamorato della città che dice di non lasciarla mai sai che questa «cosa altra» esiste, che egli potrà, se il bisogno si fa sentire, andare a verificare che essa è senza interesse, e ciò conferisce una realtà e un senso alla sua predilezione per l'ambiente urbano. Difficile dire a cosa assomiglierebbe un mondo senza quest'altra cosa, ma è probabile che sarebbe semplicemente invivibile. Abbiamo bisogno che una parte dell'ambiente sia plasmato da forze che sfuggono all'intenzionalità umana.


(1) Vedi Barrett e Johnson (2003)
(2) Cfr. Guthrie (1993)
(3) Vedi rispettivamente Sperber e Wilson (1989), Boyer e Barrett (2005) e Pignocchi (2012)
(4) Per una rassegna su tali effetti, si veda per esempio Bratman, Hamilton e Daily (2012)

(Traduzione di Chiara Pasetti )

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