Cultura

Il colpo d’ala del Festival Interplay

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danza

Il colpo d’ala del Festival Interplay

  • –di Chiara Castellazzi

Trenta compagnie da quindici paesi hanno disegnato il cartellone del torinese Festival Interplay /16: otto serate di spettacolo in teatro, un pomeriggio in urbano e un'incursione in uno spazio museale. Pur nel breve formato (da quindici a quarantacinque minuti) i giovani autori e “danzautori” hanno fornito testimonianza in coreografia della propria visione del mondo e, all'occorrenza, dei problemi che lo attraversano. Alcuni hanno lasciato un segno, come Michele Rizzo, italiano che ha trovato sostegno in Olanda (all'AFK e all'ICKamsterdam di Emio Greco) nel trio “Higher” dalla raffinata impalcatura musicale che traspone e decontestualizza le sequenze da disco sulle sonorità elettroniche di Lorenzo Senni.
In “Please me please”, con sensibilità e una dinamica volutamente ambigua e destabilizzante per l'osservatore, il danzatore Ivan Ugrin - guidato dalla brillante coreografa Liat Waysbort che ha denominatori comuni con Yasmeen Godder - evolveva sul palco in un continuum fra animalità e disarticolazione di gesti, fra sensualità e parossismo ginnico.

Euripides Laskaridis, già nel cast dell'”Odissea” di Bob Wilson, con “Relic” portava uno sferzante assolo – dove la danza è presente davvero incidentalmente – talmente fuori dagli schemi da tenere avvinto il pubblico su un registro sempre sopra le righe. Il suo gioco (di luce-suono-voce-oggetti e costumi improbabili-mirabila di una rivista surreale–vestigia di un passato ellenicamente glorioso) è folgorante all'inizio, ma poi si perde un poco di ritmo, pur restando stupefacente nella sua visionarietà. Molto ballato, e studiato per rapportarsi senza sudditanza alla musica, è invece “Drumming solo” con percussionisti dal vivo di Daniele Abanese, che con la sua personalità di performer sfugge a pericolosi paragoni che tale pezzo di Steve Reich potrebbe suggerire. Magnifico confronto danzato, intessuto sulla partitura musicale di Nico Muly, è il duo femminile “Loom” di Yuval Pick, coreografo che non ha certo impigrito la sua vitalissima ricerca da quando dirige il Centre Chorégraphique National che fu di Maguy Marin. E anche un altro duo femminile e uno maschile rimangono impressi: Francesca Penzo & Tamar Grosz – in “Why are we so f***ing dramatic” - con voce narrante come in un documentario sul genere femminile - e Igor and Moreno, in “Idiot – Syncrasy”, nel quale la drammaturgia leggera di humour si sviluppa dal canto, dai salti, dal sincrono, dalla freschezza e dall'affiatamento dei due danzautori. Mentre Marco D'Agostin è un mattatore abile e formidabile in “Everything is ok”, dove, al tripudio del dover fare e mostrare, fa seguire un rientro meditativo e poi un vuoto; pieno però di consapevolezza che il mondo continua senza di noi. Nella serata del progetto europeo Dance Roads si distingueva la coreografia di Jasper van Luijk (per Jefta Tanate), tanto fisica quanto pensata, ma a spiccare sono state soprattutto le italiane Claudia Catarzi in “Qui, ora” – pulito e vibrante come il suono captato live – e Annamaria Ajmone con “Trigger – Side A”, un pezzo di prossimità che il pubblico contribuisce a ridisegnare e dove la bellezza e la forza del movimento della danzatrice, così come l'esplosiva traccia sonora di Palm Wine, innescano relazioni ritmiche e spaziali accattivanti. Significativo anche “Possibili derive – Progetto selfie myself” di Dario La Stella, sulla rappresentazione della realtà in era digitale in cui spadroneggia il medium visivo che quasi si sostituisce all'esperienza del reale.
Se tuttavia una sola compagnia potesse essere citata, o fosse da premiare con un riconoscimento Interplay 2016, questa sarebbe Roser Lopez Espinoza da Barcellona che ha portato l'entusiasmante e luminosa coreografia “Lowland” che infatti gira dal 2013 nei cartelloni internazionali. Affascinata dal volo degli uccelli e dalle metafore che questo suggerisce, la coreografa catalana, accompagnata dal libanese Guy Nader, ha costruito un pezzo calibratissimo di bellezza, precisione e ritmo. Sul silenzio o su musiche di Ilia Mayer che declinano minime variazioni di movimento, Roser dà ali a due uccelli che sono tanto aerei quanto terreni e certo non ci conducono a immagini femminili disincarnate e languenti. La sua creatura-uccello è anzi forte, consapevole, libera e gioiosa, anche nello sforzo, anche nello sfinimento. E' ostinata a imparare il volo, a superare i propri limiti, a riprendere l'ascesa dopo la caduta. Non sappiamo a quale uccello Roser si sia ispirata, ma se anche fosse un cigno questo non morirebbe, ma curerebbe le sue ferite e si rialzerebbe per un fine alto, troverebbe la libertà, magari con l'aiuto del partner, ma certo per capacità propria.

Quando finisce a terra in “Lowland”, la danzatrice è rianimata anche dal danzatore, ma il suo movimento è fluido, continuo, mai arreso. Da sola ridispiega le ali e decolla ancora. I due uccelli riprendono il volo insieme e la composizione, sebbene di soli due interpreti, si rifà anche allo stormo, coreografia animale per eccellenza. Roser e Guy sono magnifici, la loro danza è potente e nitida, il loro andare è sincronico, complice, felice. A turno l'uno guida e poi è guidato, senza conflitti, senza attriti, con naturalezza come in un elemento a entrambi congeniale. Si danno la spinta, si appaiano, si sfasano per poi ritrovarsi all'unisono, con un piacere che deve essere quello di planare e farsi trasportare dal vento. Una coreografia che si libra in alto.

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