Due cose balzano all’occhio appena entrati nella sala di Gregotti a Brera ora rinnovata, dove di trovano esposti i capolavori di Andrea Mantegna, di Giovanni Bellini e dei maestri veneti tra Quattro e Cinquecento: la prima è l’ardita tonalità blu acceso delle pareti, la seconda è il fatto che l’allestimento del Cristo morto di Mantegna progettato da Ermanno Olmi nel 2013 su commissione di Sandrina Bandera, che si trovava in fondo alla sala, è stato smantellato. Per esaltare al massimo la dimensione religiosa e drammatica del dipinto, Olmi aveva fatto abbassare il quadro «nella prospettiva giusta, all’altezza in cui il corpo doveva essere guardato», e - privandolo della cornice antica - lo ha fatto incastonare in un pannello scuro perché fosse «affogato nel nero, nello spazio infinito, nell’assoluto». La lettura e la sistemazione dell’opera volute da Olmi- ispirate a una profonda religiosità e all’idea che la tela fosse stata realizza da Mantegna per ricordare il dramma della morte ravvicinata di due figli, secondo notizie rivenute da Sandrina Bandera - aveva però provocato una mezza insurrezione nell’opinione pubblica, soprattutto in quelle persone che - sorrette da forti valori laici - non accettavano l’idea che Cristo morto di Mantegna, esposto in un museo napoleonico, assumesse il ruolo di “reliquia” cattolica e dismettesse quello di un neutrale capolavoro della pittura rinascimentale italiana.
E così, in occasione dell’attuale “dialogo” tra il Cristo morto di Mantegna, il Cristo morto e strumenti della passione di Annibale Carracci della Staatsgalerie di Stoccarda e il Compianto su Cristo morto di Orazio Borgianni della Galleria Spada, il posizionamento voluto da Olmi con le luci basse e il quadro posto all’altezza «giusta» (cioè quella di un fedele prostrato in inginocchio davanti al corpo esanime del suo Dio) è stato messo in disparte.
Adesso s’è scelto di ricollocare il capolavoro a metà del corridoio, al centro del cannocchiale visivo, appeso a un semplice pannello alla convenzionale “altezza d’occhi” recuperando la sua antica cornice dorata. La posizione è giustificata non solo dalla celebrità del quadro, ma anche all’ordine cronologico dei dipinti esposti in sala, un ordine dettato da Giovanni Agosti che ha suggerito di chiudere il percorso del Quattrocento proprio con l’opera di Mantegna, datata al 1483 circa.
Ma è davvero questa la data in cui Mantegna dipinse il quadro? La domanda è formulata non per fare le pulci al bravo e severo ordinatore ma per mettere in campo una verità ineludibile: del Cristo morto di Mantegna praticamente non si sa nulla di certo, e questa evidenza costringe tutti (laici, cattolici, marziani e alieni) a non ostentare mai granitiche verità ma a navigare con prudenza nel mare incerto delle ipotesi. Ne consegue il fatto che ogni allestimento (dall’«Olmi-Bandera» al «Bradburne-Agosti») deve conderarsi comunque provvisorio e reversibile.
In effetti, la storia del Cristo morto è davvero oscura e intricata. Di certo si sa solo che Giuseppe Bossi scovò il quadro a Roma al principio dell’Ottocento, lo comperò e lo fece portare a Milano con tanto di cornice e vetro protettivo. Poi, i suoi eredi lo cedettero a Brera nel 1824. Fine delle notizie certe.
Quando, perché e per chi Mantegna abbia realizzato questo dipinto, e per quali vie esso sia pervenuto a Roma fino a giungere nelle mani di Bossi, sono tutti argomenti che poggiano su un mare di congetture e ipotesi. Un Cristo in scurto si trovava in casa di Mantegna alla sua morte (lo sappiamo da una lettera che il figlio, Ludovico Mantegna, scrisse al marchese Francesco Gonzaga nel 1506). Un’ipotesi vuole che il quadro in questione non sia quello ora a Brera, ma una seconda versione passata in Casa Gonzaga a Mantova, poi a Carlo I Stuart a Londra, poi al cardinal Mazzarino a Parigi, per sparire infine nel nulla ai primi del Settecento. Una diversa ipotesi vuole invece che Mantegna dipingesse una prima versione della tela per gli Estensi di Ferrara. Secondo alcuni lo fece durante gli anni Settanta del Quattrocento, quando Mantegna lavorava alla Camera picta del Castello dei Gonzaga di San Giorgio, secondo altri in occasione dell’arrivo a Mantova, nel 1482-1483, della reliquia della «Pietra dell’unzione» su cui si credeva che il corpo di Cristo fosse stato composto e unto, pietra che, in effetti, è vistosamente ostentata nel quadro. Dagli Estensi l’opera sarebbe passata nella collezione Aldobrandini a Roma, dove venne inventariata nel 1603: «Un Christo in scorto su una tavola morto, con due donne, che piangono di mano del Mantegna». Sono in molti a credere (muovendosi sempre nel liquido delle ipotesi) che il quadro Aldobrandini coincida con quello comperato da Bossi, spedito a Milano e acquisito a Brera nel 1824.
La permanenza romana del Cristo morto di Mantegna parrebbe comprovato dal fatto che alcuni pittori presenti a Roma ne trassero ispirazione. In quest’ottica va letta la presenza temporanea, accanto al capolavoro, delle tele di Annibale Carracci - che dipinse probabilmente il Cristo morto e strumenti della passione prestato dal museo di Stoccarda all’inizio della sua carriera verso il 1582-1584 - e di quella del pittore caravaggesco Orazio Borgianni, che realizzò addirittura numerose versioni dello stesso soggetto: il Compianto su Cristo morto che ora ammiriamo a Milano (databile tra il 1610 e il 1615) è quello della Galleria Spada di Roma. Ma Carracci e Borgianni videro sul serio l’originale di Mantegna? Forse. È un’ipotesi.
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