Cultura

L’educatore perfetto

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jorome bruner (1915-2016)

L’educatore perfetto

  • –di Vittorio Lingiardi
Centenario. Jerome Bruner, americano, figlio di immigrati polacchi, nacque cieco e acquistò la vista da bambno
Centenario. Jerome Bruner, americano, figlio di immigrati polacchi, nacque cieco e acquistò la vista da bambno

Il 5 giugno è morto, centenario, uno dei più importanti psicologi del Novecento, Jerome S. Bruner. Padre della «rivoluzione cognitiva», il suo contributo è stato fondamentale per superare il riduzionismo comportamentista. La sua opera sterminata abbraccia i campi delle psicologie cognitiva, dell’apprendimento e dell’educazione. Per conoscerlo meglio potete leggere una sua recente intervista al link www.apa.org/monitor/2015/05/centenarian-bruner.aspx dell’American Psychological Association. Allievo di William McDougall alla Duke University, insegnò a Harvard, dove ha diretto il Center for Cognitive Studies, a Oxford e alla School of Law della New York University.

Difficile non associare il suo interesse per la percezione alla vicenda personale: figlio di immigrati ebrei polacchi a New York, nasce cieco per cataratta congenita e a tre anni acquista la vista grazie a un intervento chirurgico. «Da quest’esperienza – dice – ho capito che le prime impressioni arrivano attraverso i sensi, che però non si occupano solo di accogliere nuovi stimoli, ma confermano anche le proprie aspettative».

Attratto dal pensiero di Vygotskij e Lurija, Bruner propone un superamento dell’ottica intrapersonale di Piaget, situa l’individuo nell’ambiente e lega lo sviluppo del bambino all’interazione con il contesto. «Dall’Ego al We-go» era una formula che amava. Al cognitivismo rimprovera di aver dato troppo spazio all’informazione a discapito del significato e si propone di «scoprire e descrivere i significati che gli esseri umani creano in base al loro contatto con il mondo e poi di formulare ipotesi sui processi di costruzione di significato coinvolti in tali operazioni».

Negli anni quaranta si occupa principalmente del modo in cui i «set mentali» (bisogni, motivazioni, aspettative) influenzano la percezione. Celebre è l’esperimento con i bambini e le monete, in cui dimostra che il valore dell’oggetto influenza la percezione della grandezza.

Ma il suo più grande interesse è l’apprendimento: come imparano i bambini? Nel 1960 pubblica The process of education (tr. it. Dopo Dewey: il processo di apprendimento nelle due culture, Armando Editore), sostenendo la tesi, all’epoca rivoluzionaria, che qualsiasi materia può essere insegnata a qualsiasi bambino. Gli insegnanti, dice, devono concentrarsi sullo scaffolding, processo interattivo in cui gli allievi vengono spinti ad apprendere partendo dalle competenze che già possiedono e sviluppando la loro curiosità. Negli anni novanta, i suoi studi si concentrano sull’importanza della cultura di appartenenza nel formare le aspettative (Lacultura dell’educazione, 1996, tr.it. Feltrinelli). Senza cultura, la mente non potrebbe esistere: impariamo, conosciamo, ricordiamo, perché siamo immersi in una cultura.

Leggerlo oggi è ancora affascinante: «Dove si trova la conoscenza? I bambini di solito cominciano con il dare per scontato che l’insegnante possieda la conoscenza e la trasmetta alla classe. Se si creano le condizioni opportune, imparano presto che anche altri componenti della classe potrebbero possedere delle conoscenze, e che queste conoscenze possono essere condivise […] In questa seconda fase, la conoscenza esiste nel gruppo – ma in modo inerte. È possibile allora vedere la discussione di gruppo come un modo di creare conoscenza invece che semplicemente di scoprire chi possiede le conoscenze? […] E se nessun membro del gruppo sa la risposta, dove si può andare a scovarla? È il balzo che porta a concepire la cultura come un magazzino, un deposito di attrezzi, o qualcosa di simile. Esistono cose note a tutti gli individui (più di quante essi stessi sappiano); più cose ancora sono conosciute dal gruppo […] e più ancora sono immagazzinate in qualche altro posto – nella cultura, per esempio nella testa delle persone più colte, nei manuali, nei libri, nelle mappe e così via. Per definizione, nessuno in una cultura sa tutto quello che c’è da sapere su di essa. E allora cosa dobbiamo fare quando non sappiamo come andare avanti? Quali sono i problemi che incontriamo nel reperire la conoscenza che ci serve? Se sappiamo rispondere a questa domanda siamo sulla buona strada per capire cos’è una cultura. Non ci vorrà molto perché un bambino cominci a capire che la conoscenza è potere, o che è una forma di ricchezza, o che è una rete di sicurezza».

In La ricerca del significato (1990, tr.it. Bollati Boringhieri) critica il riduzionismo cognitivista dei modelli computerizzati della mente: se l’essere umano perde la concezione della mente come creatrice di significati, rinuncia alla libertà e alla creatività che essa gli permette. Anche per questo preferisce intrecciare lo studio della psicologia con quello della giurisprudenza più che con la biologia. In una delle sue ultime opere, La fabbrica delle storie (2002, tr.it. Laterza), a partire da autobiografie, esempi letterari e casi legali, costruisce una fenomenologia del modo in cui usiamo le narrazioni per dare senso alla vita e affrontare i grandi dilemmi morali e psicologici che la attraversano. In questo libro ci mostra – aprendoci gli occhi, come era capitato a lui da bambino – i significati, spesso duplici e incerti, nascosti nelle credenze psicologiche spontanee.

Salutiamo con affetto Jerome Bruner, studioso infaticabile, uomo elegante e pieno di humor, «educatore perfetto», come l’ha definito il collega Howard Gardner.

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