Cultura

Verdi mai sentito

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degni di nota

Verdi mai sentito

  • –di Quirino Principe

Mai, forse, come negli ultimi vent’anni la letteratura storica, biografica e critica
ha preso in mano e osservato con la lente d’ingrandimento
la personalità e il lascito di Giuseppe Verdi. Non sappiamo se sia intervenuta una terza o quarta Verdi Renaissance, ma certo la qualità e l’estensione del nuovo libro di Paolo Gallarati, Verdi ritrovato: Rigoletto, Il trovatore e La traviata mostrano come la riflessione di oggi su quel tesoro inesauribile che si rivela essere l’opera verdiana sia tesa ad “aggredire” un mondo di conoscenze ancora in ombra, o chiuse a chiave. Ponendo a confronto la seconda parte
del titolo e il cospicuo numero di pagine del volume, s’intuisce che l’autore concentra un sistema complesso
di analisi e di strumenti critici su un gruppo circoscritto di lavori, ossia sulle tre opere della cosiddetta trilogia “romantica” o “popolare”. Ciò significa non soltanto molte sorprese, ma anche approfondimento e risultati tali
da escludere l’ovvio, la routine e il déjà vu. Nella zona centrale del libro, Gallarati istituisce un raffronto tra la complessità wagneriana, che segue un disegno in prevalenza verticale, e la complessità verdiana, realizzata tendenzialmente secondo una linearità orizzontale. Tuttavia, uno dei fattori di spicco
(e di gran pregio) di questo libro è la sensazione di procedere, leggendo, solo fino a un certo punto sulla terraferma; diventa sempre più insistente, a mano
a mano che si legge, la percezione
di un grande flusso, di una liquidità profonda che suggerisce l’idea del mare. In quel mare, Gallarati procede con la forza e la sicurezza di chi si sia conquistato smisurate conoscenze.

In verità, questa concentrazione
di tante forme e declinazioni del sapere sul delimitato pur se arroventato e potente oggetto, la trilogia del 1851-1853, non ha precedenti commisurabili.
Lo stesso Gallarati passa in rassegna
la bibliografia. Al solo Rigoletto erano state dedicate due monografie, di Marcello Conati e di Alessandro Roccatagliati. C’è, sulla Traviata, il bel saggio di Michel Parouty e la ferrata ricerca sulle fonti di Emilio Sala; a parte, cè il saggio biografico di Cecilia Cavanagh su Alphonsine Du Plessis, la vera dame aus camélias. Sul Trovatore c’è lo studio, definito da Gallarati “utilmente espositivo”, di Martin Chusid. Sull’intera trilogia “popolare” «esistono ancora un vecchio saggio di Andrea Della Corte pieno di riserve e di “consigli” su ciò che Verdi avrebbe dovuto fare per eliminarne i supposti difetti, e quello, molto recente, di Antonino Titone», che parte da alcuni aspetti-campione delle tre opere per «una serie di libere divagazioni culturali».
Nei volumi di Julian Budden, Massimo Mila e Gabriele Baldini, che esaminano Verdi nel suo insieme, alle tre opere sono dedicati singoli capitoli, inevitabilmente brevi e sommari. Ora, il generoso e valoroso lavoro di Gallarati parte
dalla triste constatazione che, fin
dai primi anni della loro esistenza,
le opere di Verdi furono sottoposte a un «logorio esecutivo che ne alterò e deformò i contorni». Lo stesso Verdi lo dichiarò molto spesso. Per esempio,
in una lettera a Giulio Ricordi, da Genova, il 25 marzo 1875: «Per parte mia dichiaro che mai, mai, mai, nissuno [sic] ha mai potuto e saputo trarre tutti gli effetti da me ideati ». Verdi, l’autentico Verdi, si era in gran parte perduto. Peggio, non era mai stato scoperto. Ritrovare il vero Verdi, scoprire le parti occultate di lui,
è il fine di questo libro, che trova il suo senso ultimo nelle profondissime capillari analisi, sempre rivelatrici.
C’è anche un’altra bellezza che connota
il lavoro di Gallarati: Verdi ritrovato
è dedicato “agli italiani”.

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