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Quell’«idiota» di Borges

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elzeviro

Quell’«idiota» di Borges

Trent’anni dalla morte. Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (Buenos Aires, 24 agosto 1899 - Ginevra, 14 giugno 1986)
Trent’anni dalla morte. Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo (Buenos Aires, 24 agosto 1899 - Ginevra, 14 giugno 1986)

Chissà se a Jorge Luis Borges piacerebbe la voce di Wikipedia a lui dedicata. Potrebbe trovarla ben fatta, o comunque interessante, ma probabilmente non per le ragioni che potremmo immaginare, perché è probabile che al tempo stesso egli rimpiangerebbe il modo in cui erano costruite le voci delle enciclopedie che frequentava da bambino e che avrebbero forgiato la sua immaginazione di scrittore e saggista.

Alan Pauls, nel suo tentativo di individuare Il fattore Borges – cioè l’autentico marchio di fabbrica, l’elemento realmente identificativo che permetta di definire a colpo sicuro come borghesiano uno scritto di Borges - non dimentica nessun ingrediente fondamentale: il gusto per la letteratura anglo-americana e per la grande narrativa dell’Ottocento, «la Bibbia dei romanzi (il Chisciotte)» e «il verbo argentino dei poeti gaucheschi», Dante e Shakespeare, i polizieschi che hanno come capostipite i Delitti della rue Morgue di Edgar Allan Poe, maestro di short stories; le filosofie trasmessegli, in chiave mediata e didattica, dal padre avvocato, un anarchico discepolo di Spencer che insegnava psicologia: dal pensiero greco all’idealismo di Berkeley, dall’empirismo inglese al pragmatismo di William James. Ma il collante di tutto ciò sono i mondi meravigliosi dischiusi dalle voci e dalle modalità di organizzazione del sapere, disordinate e sistematiche al tempo stesso, che le enciclopedie sanno regalare ai lettori in poche righe.

Quando Borges ripensa alla biblioteca paterna, la Chambers’s Encyclopædia e l’Enciclopedia Britannica sono le prime due opere che gli vengono in mente: le stesse che sono in cima alla lista della propria biblioteca, di cui parla nel 1979, a ormai ottant’anni. È questa la porta d’accesso per comprendere la sterminata biblioteca mentale dello scrittore argentino, accusato così spesso di praticare una letteratura che ha molto a che vedere coi libri e assai poco con la vita. «Menino vanto altri delle pagine che hanno scritte; / il mio orgoglio sta in quelle che ho lette», scrive in Elogio dell’ombra (1969). Anche le enciclopedie, per Borges, innanzitutto si leggono, non si consultano. E sono una lettura quanto mai immaginifica e straniante, meglio di molta letteratura, soprattutto se ci si lascia guidare dalla casualità dell’ordine alfabetico. Sono la fonte borghesiana per eccellenza, insieme ad altri riferimenti popolari che costruiscono la sua poetica.

Erudizione, Cultura, Stile, sono tratti con cui in genere lo si identifica pensando a opere come L’Aleph, Finzioni o Altre inquisizioni, dimenticando che il suo amore per la lettura, e la sua capacità di trasformare tutto in letteratura (anzi, ancor di più, nella sua negazione), si nutre anche di altre fonti legate alla vita quotidiana e alla cultura popolare. «Debbo la mia prima nozione dell’infinito a una grande scatola di latta per i biscotti che diede mistero e vertigine alla mia infanzia (...) Ricordo che in un angolo dell’immagine compariva la stessa scatola con la stessa figura, e su questa c’era la stessa figura e così via (almeno potenzialmente) all’infinito... Quattordici o quindici anni dopo, verso il 1921, scoprii in una delle opere di Russell un’invenzione analoga di Josiah Royce». Scrivere, per Borges, commenta Pauls, è «raccontare come si passi da una scatola di biscotti a un libro di Bertrand Russell, e soprattutto come la scatola di biscotti e il libro di Russell dicano, l’una e l’altro a modo suo, ciascuno nella propria lingua, la stessa cosa». E ciò avviene su una rivista femminile, tra le pubblicità di pentole e reggiseni: «Borges discute sulle pagine dei giornali le stesse questioni che lo preoccupano quando scrive per Sur o che folgorano il lettore, circonfuse di una nube di erudizione, nei suoi libri: il paradosso del bugiardo, il teorema di Gödel, la quarta dimensione, l’eternità, l’infinito, il doppio, la metafora, le aporie della filosofia greca, il nominalismo... Cita gli stessi libri, esalta gli stessi scrittori, traduce le stesse letterature».

La parte più nuova e illuminante del libro di Pauls è proprio quella che mette in scena il Borges mediatico, popolare, ma per nulla accondiscendente verso il vasto pubblico. Egli «immagina una realtà più complessa di quella che spiega al lettore e ne riferisce le conseguenze e gli effetti, riscrive e contamina, riduce l’intera vita di uno scrittore o di un pensatore a due o tre scene, trascrive e traduce». Offre a tutti, in una parola, in ogni occasione, delle autentiche “perle” del pensiero e della cultura, idee e concetti trasformati in pura narrazione. In uno dei più bei saggi contenuti in Discussione, «La corsa perpetua di Achille e della tartaruga», definisce appunto “gioiello“ il celeberrimo paradosso di Zenone. Un gioiello è caratterizzato da «piccolezza preziosa, delicatezza non soggetta alla fragilità, somma facilità di trasporto, limpidezza che non esclude l’impenetrabile»: la micronarrazione di quel paradosso non può avere definizione migliore, indifferente com’è «alle confutazioni decisive che da più di ventitré secoli lo demoliscono» rendendolo «immortale». Allo stesso modo immortali sono opere come il Chisciotte o Le mille e una notte, che resistono a infiniti fraintendimenti, refusi e traduzioni piene di errori o di censure. Ma il racconto di Achille illumina un altro aspetto del modo di procedere di Borges, che deriva dallo stile educativo adottato dal padre, dal suo metodo implicito e indiretto. Egli insegnava al figlio di otto o dieci anni i paradossi di Zenone «con l’aiuto di una scacchiera», o i rudimenti dell’idealismo «senza mai pronunciare il nome di Berkeley». In altre parole insegnava senza dare a vedere di insegnare, e il carattere obliquo della trasmissione del sapere diventava la garanzia di un miglior risultato. «Questo metodo (insegnare a fingendo di insegnare b) – osserva Pauls - è, in realtà, una vera scuola logica per Borges: implica una precisa concezione della verità (la verità non viene detta: racchiusa nelle pieghe del silenzio, viene svelata, e solo parzialmente, in quello che si dice) e fornisce anche il metodo per portarla alla luce. Questo metodo è l’inferenza, l’operazione logica mediante la quale Borges bambino ricostruiva i nessi che univano b (il falso oggetto dell’insegnamento) con a (l’oggetto vero ma non dichiarato)».

Un genere di inferenza che diverrà anch’essa stile letterario, ma non ostentazione di intelligenza (o di erudizione) fine a sé stessa. Al contrario, in Borges il massimo dell’intelligenza o di sapere può trasformarsi umoristicamente nel massimo della stupidità. Come aveva osservato Michel Foucault nell’introduzione al suo Le parole e le cose, è nel bel mezzo di un serissimo resoconto sulla lingua universale inventata da John Wilkins nel 1664 che il discorso, a furia di classificazioni esplicative delle categorie attraverso cui catalogare il mondo per rendere possibile tale lingua, si scivola gradualmente dalla sensatezza iniziale al ridicolo e all’esplosione comica dovuta all’improvvisa citazione di una presunta enciclopedia cinese intitolata Emporio celeste di conoscenze benevole dove gli animali si dividono in « a) appartenenti all’Imperatore, b) imbalsamati, c) ammaestrati, d) lattonzoli, e) sirene, f) favolosi, g) cani randagi, h) compresi in questa classificazione, i) che si agita-no pazzamente, j) innumerevoli, k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, l) eccetera, m) che hanno rotto il vaso, n) che da lontano sembrano mosche».

Borges con questa procedura «insinua la risata nel cuore del pensiero». E lo fa da buon seguace del Flaubert dello Sciocchezzaio e di Bouvard e Pécuchet, i due idiots savants sui quali scrive nel 1954 un saggio in difesa del loro progetto di copisti che passano in rassegna, senza capirle, tutte le discipline del loro tempo. È questa forse la dichiarazione più esplicita della poetica borghesiana. Sotto il suo sguardo tutti i sapienti del mondo possono essere degli idiots savants: anche i tedeschi, artefici di «enormi edifici dialettici, sempre infondati ma sempre grandiosi». Anche Leibniz e Spinoza, anche Democrito e Zenone. Borges non distingue tra grandi nomi e illustri sconosciuti, accomunati dal senso di una immane tragicommedia dell’intelligenza; esplora i concetti che, come quello di infinito, «corrompono e rendono insensati gli altri», i momenti in cui ci si sforza di pensare e si affonda irrimediabilmente nei «labili ed eterni interstizi dell’irragionevolezza». Gli idiots savants di Borges sono pensatori che si sono spinti troppo oltre, «hanno spinto il pensare e il pensiero fino all’estremo limite, là dove il pensiero coincide con l’impossibilità di pensare, dove il pensiero più profondo e l’idiozia più idiota diventano la stessa cosa». Idiotizzare Borges: ecco dunque il programma che aspetta tutti coloro che – a trent’anni dalla morte - si accingono a leggere o rileggere la sua opera. A guadagnarci sarà solo - se le inferenze borghesiane andranno nella giusta direzione - la loro stessa intelligenza.

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