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Profondità del pragmatismo

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Scienza e Filosofia

Profondità del pragmatismo

  • –di Alessandro Pagnini
Harvard. Emerson  Hall, sede del Dipartimento di filosofia, in una cartolina d’epoca
Harvard. Emerson Hall, sede del Dipartimento di filosofia, in una cartolina d’epoca

Agli inizi dell’800, Alexis de Tocqueville, cui non mancava uno sguardo penetrante su tanti aspetti culturali della scena americana, notò che in nessun Paese del mondo civile la filosofia era presa meno sul serio che negli Stati Uniti. Un secolo dopo fu Martin Heidegger, scrivendo un giudizio sommario sul pragmatismo, a sentenziare che si trattava di “americanismo”, di una forma di primitivismo filosofico che aveva più a che fare con l’Americanway of life, con la manipolazione delle cose e con la tecnologia, che non con il vero pensiero, confermando l’idea che a quella genia grezza e praticona che popolava il Nuovo Mondo mal si addiceva la filosofia.

E non è che i filosofi analitici della prim’ora, soprattutto il Bertrand Russell della Storia della filosofia occidentale, presi com’erano dalla “svolta linguistica”, considerassero un gran che James e Dewey; come neppure gli analitici di fine ’900 (Bernard Williams, per esempio), quando mostravano di non apprezzare quella “confusione” tra pratiche umane e conoscenza di come stanno le cose nel mondo imputabile al pragmatismo come a ogni forma di naturalismo. Una filosofia ingenua, dunque, che, in quanto poco “filosofica”, poteva tutt’al più vantare una sana innocenza antimetafisica e una sua significatività in èra «post-filosofica»?

Una recente cospicua storiografia e molte opere teoricamente rilevanti su quanti pragmatismi contare (per lo storico delle idee Arthur Lovejoy ce n’erano tredici già nel 1907) ha restituito la dovuta grandezza e il giusto peso a quella che è stata indubbiamente la più importante filosofia americana e che oggi, da quando la cultura continentale guarda oltreoceano con meno pregiudizio, è una forma di pensiero che dialoga con tutte le filosofie più importanti di cui siamo eredi: kantismo, idealismo, fenomenologia, ermeneutica, filosofia scientifica, filosofia analitica, filosofie della vita, teoria critica.

La raccolta di scritti di studiosi italiani che qui presentiamo è una testimonianza importante dell’odierno rinnovato interesse per il pragmatismo ed è un contributo che combina apprezzabilmente didattica storicamente informata e originalità interpretativa.

Intanto gli autori trattano separatamente il «pragmatismo classico» che va da Peirce a C.I. Lewis; quello della sfida antimetafisica, della massima logico-metodologica secondo la quale il significato di un’idea o di una credenza sta nelle sue possibili conseguenze pratiche, quello che attinge a man bassa dalla scienza e dall’evoluzionismo di Darwin, quello antifondazionalista e anticartesiano che prefigura una forma di esternalismo semantico e di antirappresentazionalismo: posizioni epistemologiche che incideranno molto sulla filosofia scientifica del ’900. Un pragmatismo non dottrinario, ma sicuramente portatore di un progetto unitario, che acquisisce progressivamente una leadership nella filosofia professionale di Harvard, Chicago e New York, a scapito di una prima filosofia accademica americana tutta idealismo e teologia.

Ma insieme ai grandi classici, questa prima parte tratta anche di Ralph Waldo Emerson, e correttamente; perché il pragmatismo (e lo dimostra il senso della filosofia democratica di Dewey, come oggi la posizione «pragmatista-storicista» di Joseph Margolis) non si può costringere nel letto di Procuste della logica classica e di una teoresi «scientista» che escluda preoccupazioni etiche e estetiche. E tantomeno si può continuare a leggere come una filosofia senza storia e senza referenti.

Significativa, a proposito, la pagina di Peirce riportata a pagina 30 dove il “padre” del pragmatismo paga i sui debiti a Emerson (come anche a Schelling, Plotino e Böhme. Alla faccia della filosofia naive!).

Una seconda parte del libro è dedicata alla diffusione del pragmatismo, dove si fa il punto sui pragmatisti italiani e europei, importanti per la loro critica all’idealismo e al trascendentalismo kantiano, “coraggiosi”, come li definì James, nel cercare di unire filosoficamente teoria e pratica in un’epoca divisa tra intellettualismi iperrazionalisti e una prassi sempre più compromessa con la violenza. A queste pagine dense di intrecci biografici e di rilievi teorici, avrei forse aggiunto un capitolo a parte su pragmatismo e empirismo logico che non si limitasse agli accenni resi necessari dalla trattazione delle filosofie di Lewis e di Quine (per saggiare l’importanza di certi esiti pragmatisti nelle vicende dell’idealismo trascendentale e del realismo empirico in filosofia della conoscenza, vedi il recente dibattito tra Kenneth R. Westphal e Paolo Parrini in Esercizi filosofici, 10, 1, 2015, scaricabile on line).

Infine, la terza parte dedicata al neopragmatsimo, dove spicca per la sua novità il capitolo dedicato a Susan Haack, Cornel West, Robert Brandom, e Richard Schusterman. Brandom, per esempio, forse il più importante filosofo statunitense vivente, rilegge il canone pragmatista alla luce di una originale revisione dell’eredità di Kant, Hegel, e Wittgenstein; e Schusterman, l’ideatore della «somaestetica», singolare interprete di Merleau-Ponty e della tradizione fenomenologica, propone una sua teoria pragmatista della “mente incorporata” che apre anche alla suggestione delle filosofie orientali. Tutti autori che attestano la vitalità e prolificità del pragmatismo soprattutto dopo la pubblicazione, nel ’79, de La filosofia e lo specchio della natura di Rorty. Ma il senso della puntuale ricostruzione proposta in questo libro è proprio quello di attestare che non c’è mai stata una vera e propria “eclisse” del pragmatismo, se non per la sua egemonia nelle accademie e per una sua, forse equivocata, incompatibilità con la prima filosofia analitica che prese campo in America dopo la morte di Dewey.

La imperitura lezione del pragmatismo è una lezione metodologica con al centro il tema dell’esperienza e del concreto interesse umano (non da intendere soggettivisticamente), in un dialogo costantemente aperto con le scienze, con la logica e con la società. Una lezione, tra l’altro, che dimostra sempre più il suo radicamento profondo nella storia del pensiero occidentale.

Come scrivono i curatori nell’introduzione, a sfatare l’idea del pragmatismo come mera antifilosofia e come “sintomo” di una mentalità soltanto pratica, «i pragmatisti sono per la verità e per la storicità così come sono per la creatività e la precisione: sono per Kant e per Hegel o, meglio, per nessuno dei due»; e però, come l’intero libro dimostra, senza mai cessare di confrontarsi con quella tradizione.

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