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Il «Prencipe» giapponese

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STORIE DI QUADRI

Il «Prencipe» giapponese

Domenico Tintoretto. «Ritratto dell’ambasciatore giapponese Sukemasu Itô Mancio», 1585, Milano, Fondazione Trivulzio
Domenico Tintoretto. «Ritratto dell’ambasciatore giapponese Sukemasu Itô Mancio», 1585, Milano, Fondazione Trivulzio

In Italia un quadro così non farebbe notizia perché la tipologia e il soggetto sono da noi assai diffusi: un ritratto di giovane a mezzo busto, vestito alla moda spagnola di tardo Cinquecento, con abito bruno, cappello nero e gorgiera bianca. Niente di più comune.

Eppure, in Giappone, un quadro italiano con queste “banali” caratteristiche sta raccogliendo un’eccezionale attenzione di pubblico, essendo protagonista di una mostra allestita fino al 10 luglio al Museo Nazionale di Tokio e poi itinerante a Nagasaki (Museo di Storia a Cultura, 22 luglio-31 agosto) e a Miyazaki (Museo d’Arte, 9 settembre-16 ottobre).

Perché tanto interesse e clamore nel Paese del Sol Levante per un “comune” quadretto italiano? La risposta è semplice: ciò che a noi pare “comune” per i giapponesi rappresenta un “unicum” strepitoso. Il quadro in questione ritrae infatti Sukemasu Itô Mancio (1570-1612), uno dei quattro nobili giapponesi convertiti al cristianesimo che vennero inviati in Italia nel 1585 come ambasciatori presso la Sede Apostolica. Poiché il Giappone non possiede alcuna immagine di questi ambasciatori, è ben comprensibile il successo giapponese del ritratto, portato in tournée proprio in occasione delle celebrazioni legate ai 150 anni di relazioni diplomatiche tra Italia e Giappone (1866-2016).

L’ambasceria del 1585 rappresentò il primo vero contatto tra il remoto paese d’Oriente e il centro del cattolicesimo. Alla missione diplomatica parteciparono quattro giovani giapponesi, tutti adolescenti, convertiti e battezzati dai Gesuiti con nomi cristiani. Si chiamavano Michele Chijiwa, Giuliano Nakaura, Martino Hara e Sukemasu Itô, battezzato con il nome di Mancio. Il protagonista del quadro era il capo missione ed era presente nell’ambasceria a nome del nobile cognato Francesco Ôtomo, signore di Bungo.

La delegazione partì da Nagasaki nel 1582, e dopo aver attraversato Cina, India, Portogallo e Spagna, approdò felicemente nel porto di Livorno il 1° marzo 1585. Gli ambasciatori ebbero accoglienze trionfali. Subito raggiunsero Firenze dove vennero accolti dal granduca di Toscana Francesco I de’ Medici che fece loro visitare Pisa e Siena. A Roma arrivarono il 22 marzo 1585 e il giorno dopo papa Gregorio XIII li ricevette in privato. La delegazione si trattenne nella capitale del papato fino al 3 giugno 1585, assistendo a fatti eccezionali come la morte del pontefice, il conclave e l’elezione del successore Sisto V, che volle insignire i diplomatici della cittadinanza onoraria romana. Visitarono poi Napoli, Ferrara (accolti dal duca Alfonso II d’Este), Venezia, Milano e infine Genova, dalla quale fecero vela verso la Spagna, ritornando in Giappone nel 1590.

È facile immaginare che, per solennizzare il passaggio di questi eccezionali personaggi, alcuni pittori italiani venissero chiamati da autorità civili e religiose a immortalare i loro volti. Accadde così, ad esempio, a Venezia, dove il Senato della Serenissima ordinò a Jacopo Tintoretto di ritrarre «Don Mansio, Don Michele, Don Giuliano e Don Marti[n]o Prencipi Giapponesi». Proprio a questa importante commissione si lega il quadro oggi itinerante in Giappone, che proviene dalla collezione milanese dell’antica famiglia Trivulzio, nella quale è stato riscoperto nel 2008, e che dopo anni di serrate ricerche si è rivelato essere inequivocabilmente il ritratto dell’ambasciatore giapponese Sukemasu Itô Mancio.

La storia del ritrovamento del quadro e del suo riconoscimento è piuttosto affascinante e conviene raccontarla brevemente.

Nel 2008 la nobildonna milanese Alberica Trivulzio decide di far dono al figlio Gian Giacomo Attolico Trivulzio di un quadro di casa, un piccolo ritratto d’uomo vestito alla spagnola ma dai caratteri somatici chiaramente orientali. Il quadro - un olio su tela di 53 x 43 centimetri - risulta attribuito a «scuola veneta». Ricevuto il dipinto, Gian Giacomo Attolico Trivulzio lo ha donato alla Fondazione Trivulzio di cui è presidente, lo ha fatto restaurare e ha chiesto all’archivista Paola Di Rico e allo storico Marino Viganò di studiare attentamente la tela. Le indagini sono cominciate girando il dipinto e andando a esaminare la singolare e un po’ oscura iscrizione antica posta sul retro: «D. MANSIO NIPOTE DEL RE DI FIGENGA AMB[ASCIATOR].E DEL RE FRA[NCES].CO BVGNOCINGVA A SUA SAN[TIT]A. MCXXCV. DGH 393».

La scritta - effettivamente - celava la chiave di lettura del quadro. Grazie all’iscrizione si è infatti compreso che l’orientale raffigurato altri non era che l’ambasciatore giapponese «Don Mansio» vestito all’europea. E che la data «MCXXCV» (1585) saldava il dipinto alla storica ambasceria nipponica presso la Santa Sede. S’è inoltre appurato che il quadro era stato realizzato a Venezia in occasione del passaggio degli ambasciatori. Sukemasu Itô Mancio e i suoi tre colleghi aveva soggiornato in Laguna dal 25 giugno al 6 luglio 1585 ricevendo grandi onori. Il cronista Guido Gualtieri tenne un minuzioso resoconto del loro soggiorno e raccontò che il Senato veneto aveva commissionato i loro ritratti a Jacopo Tintoretto  (pagando un anticipo di 2mila scudi) per destinarli a Palazzo Ducale. Anche Carlo Ridolfi (1642), biografo di Tintoretto, riportò la notizia di questa singolare commissione al pittore. Il ritratto di «Don Mansio» però non venne materialmente realizzato da Jacopo Tintoretto ma dal figlio Domenico Tintoretto, come è stato recentemente confermato anche da Sergio Marinelli.

L’opera, tuttavia, non uscì mai dalla bottega dei Tintoretto. Morto Jacopo nel 1594 e anche il figlio Domenico nel 1635, la bottega verrà ereditata da Sebastiano Casser, genero di Jacopo Tintoretto. Il «Don Mansio» rimase tra le opere in giacenza nella bottega finché il collezionista Gaspar de Haro y Guzmán, marchese del Carpio, ambasciatore di Carlo II d’Asburgo a Roma (1677) e vicerè di Napoli (1683), non acquistò l’intera giacenza della bottega tintorettesca. Questo passaggio di proprietà è testimoniato dalla sigla «DGH 393» posta sul retro della tela, che senza dubbio si riferisce a «D[on] G[aspar de] H[aro]» e riporta il numero d’ordine «393» della sua collezione.

Il crack finanziario del marchese del Carpio - fortemente indebitato con banche italiane - portò alla dispersione del suo favoloso patrimonio. Il banchiere fiorentino Giovanni Francesco del Rosso incamerò dipinti e suppellettili della collezione de Haro e ne distribuì una parte ai soci Strozzi, Martelli e Rinuccini. Ed è proprio nella galleria Rinuccini di Firenze che si registra un «Ritratto ignoto di Dom. Tintoretto». Pierfrancesco Rinuccini dividerà successivamente la sua collezione tra tre figlie, di cui una, Marianna Rinuccini, andrà in sposa a Giorgio Teodoro Trivulzio nel 1831 portando in dote nella collezione Trivulzio di Milano anche il ritratto di Sukemasu Itô Mancio.

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