Cultura

Il senso delle cose che vogliamo

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RIFLESSI NEL GRANDE SCHERMO

Il senso delle cose che vogliamo

«Tutti vogliono qualcosa»   di Richard Linklater. Da sinistra, Blake Jenner (Jake), Tyler Hoechlin (Mc Reynolds), Wyatt Russell (Willoughby)
«Tutti vogliono qualcosa» di Richard Linklater. Da sinistra, Blake Jenner (Jake), Tyler Hoechlin (Mc Reynolds), Wyatt Russell (Willoughby)

Il mattino di un sabato di fine estate, nel 1981. A meno di vent’anni, Jake (Blake Jenner) passa lento con la sua auto attraverso il campus della Southeast Texas University. Molte belle e giovani donne si muovono leggere ai lati della strada, colorate e fresche nel sole. Lui le guarda come si guarda a una promessa inaspettata, con ammirazione stupita e desiderio felice. Fra quarantotto ore lo attende il domani: le lezioni, gli esami, il cammino che porta alla vita adulta. Ma ora, in un fine settimana pieno di luce, il tempo gli appare sospeso. Inizia così, quasi in soggettiva, la vicenda di Tutti vogliono qualcosa (Everybody Wants Some!!, Usa, 2016, 117’).

Dopo Boyhood (2014), e con uguale attenzione per le storie di vita, Richard Linklater racconta il frammento di una formazione, un passaggio decisivo in una biografia. Anzi, non solo in una, ma in molte biografie: quella di Jake e insieme quelle di Finnegan (Glen Powell), di Roper (Ryan Guzman), di McReynolds (Tyler Hoechlin) e degli altri che, con Jake nel ruolo di lanciatore, formano la squadra di baseball dell’università, qualcuno ancora fresco dei campionati liceali e qualcuno tanto “vecchio” che presto se ne andrà.

Tutto questo accadeva trentacinque fa, e ora torna ad accadere in un film. Quasi coetaneo di Jake, Linklater ha girato e scritto Tutti vogliono qualcosa quando ormai il suo domani s’è fatto oggi, e l’oggi di allora è inesorabilmente lo ieri. Non c’è però nostalgia, nel racconto. O almeno della nostalgia non c’è il dolore sottile. C’è invece il senso dolce del ritorno all’inizio, quando niente era ancora, e dunque tutto era possibile. Quanto è durato quel tempo? Anni? Mesi? Chissà, forse quel tempo non c’è mai stato. Forse è fuggito via in silenzio, senza che ce ne accorgessimo. O forse c’è solo adesso, quando nella memoria – nella soggettiva della memoria – lo ricostruiamo, e in qualche modo lo inventiamo.

Nella memoria, dunque, Linklater racconta l’insipienza in-consapevole e ingenua dei suoi protagonisti: le grandi assurde bevute, le orge più millantate che realizzate, i riti innocenti e crudeli con cui i nuovi arrivati sono accolti nel gruppo, la spavalderia di chi pretende per sé e solo per sé un futuro eroico, i duelli verbali e le sbruffonerie fra compagni di squadra che scalpitano come campioni immaginari sempre in competizione. Per un intero sabato e una intera domenica, giorno e notte Finnegan, Roper, McReynolds e gli altri mettono in scena se stessi, recitando il proprio ruolo con la baldanza di chi sia certo del domani, quasi si trattasse delle prove ufficiali di quella trionfante rappresentazione teatrale che pensano sarà la loro vita. In fondo, in questo piccolo branco di giovani maschi che si sforzano di essere ognuno diverso da ogni altro, ognuno fa come ogni altro.

Non però Jake, più insicuro dei suoi compagni, più critico, meno riducibile ai modelli del gruppo. Così almeno appare nella soggettiva della memoria. E in questa soggettiva un posto decisivo spetta a Beverly (Zoey Deutch). Incontrata per caso nel campus, ancora per caso Beverly suggerisce a Jake una curiosità nuova e impensata per la recitazione e il teatro, lontano da quelli che dovrebbero essere il suo ruolo e il suo futuro. I due finiscono a letto insieme, e forse si amano. Certo parlano l’uno con l’altra, e pensano.

C’è un senso in quello che fra quarantotto ore comincerà a capitar loro? C’è un senso nel chiasso festoso, nella insipienza ingenua, nella tenerezza e nella buona volontà delle migliaia di ventenni che vivono, si muovono, si amano e si mettono in scena nel campus? Queste sono le domande di Jake e Beverly nel 1981, la notte di una domenica di fine estate. E queste domande Linklater reinventa nella soggettiva del suo film. La risposta è affidata a una suggestione di Albert Camus, che lui e lei fanno propria. Il senso di una storia di vita è nelle mani di chi la voglia vivere con ammirazione stupita e desiderio felice. E di chi, poi, ne sappia rinnovare il tempo nella memoria.

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