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Solo le storie misurano il dolore

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Solo le storie misurano il dolore

Da bambino sognavo che esistesse una macchina del dolore. Un aggeggio che consentisse, per pochi istanti, di provare concretamente le sofferenze altrui — specie quelle che mi apparivano più remote: il freddo, la fame, la tortura. Cosa sente un corpo quando viene ridotto all’impotenza? Potevo vederlo alla televisione. Lo leggevo nelle mie prime avventure attraverso le pagine. Ma ero sicuro di comprenderlo veramente?

Ritenevo che solo un’effettiva trasmissione di quella sofferenza avrebbe potuto scatenare in noi la vera empatia — e dunque un’azione immediata. Non puoi capire, mi dicevo: è vero, a volte realmente non possiamo capire. L’immaginazione ha dei limiti irritanti; e lì vedevo l’origine dell’ignavia morale. E ogni volta che leggo di una tragedia capitata a chi si è messo in viaggio per fuggire, una parte di me — la più radicale, forse anche la più ingenua — ci ripensa con convinzione. Uno strumento capace di andare oltre la squallida contabilità del male: 366 migranti deceduti nel solo naufragio del 3 giugno 2013; 3500 i morti in mare nel 2015; centinaia di dispersi il 6 maggio 2011; centinaia di migliaia di sfollati dalla guerra in Siria; e così via, e così via. Uno strumento capace di andare oltre i tanti discorsi, le tante immagini. Oltre il dramma della rassomiglianza e dell’assuefazione. Dopo cento volti straziati dalla sofferenza, dopo gruppi e gruppi di bambini affamati che fissano l’obiettivo, dopo un editoriale indignato, dopo un dialogo contrito fra amici e compagni — che resta? Come propagare un vero incendio delle coscienze? Volevo un mezzo per proteggerci dal pensiero destinale: l’idea che in fondo le cose stiano così, che non vi sia altro da fare se non compiangere. Lamentarsi insieme. Un rito consolatorio.

Poi sono diventato grande, e mi sono trovato a che fare con le parole. Un mezzo certamente molto potente, e nel quale nutro grande fiducia. Ma limitato, e a volte carico di menzogna. Pensate solo a ciò che diventa un essere umano in fuga dall’Eritrea, o dal Sudan, o dall’Afghanistan, quando tocca le coste dell’Europa: un irregolare, un clandestino. Subisce una sorta di trasformazione — e basta qualche sillaba. Del resto su questo non ho mai avuto dubbi: il potere, anche il potere lessicale, è qualcosa di estremamente pericoloso.

Cosa opporre allora a tutto questo? Qual è la nostra macchina del dolore? Le storie, forse.

Le storie sono ciò che ci impedisce di ridurre questa immensa tragedia a un mucchio di concetti e numeri: le storie liberano le parole dalla loro banalità e dalla loro imprecisione. In un passo di Minima moralia, Adorno scriveva che «la vita passata dell’emigrante è, come è noto, annullata. Una volta era il mandato di cattura, oggi, invece, è l’esperienza intellettuale che viene dichiarata non trasferibile e totalmente estranea al carattere nazionale. Ciò che non è reificato, che non si presta ad essere contato e misurato, viene lasciato cadere». Tutto ciò che all’Europa interessa è appunto il misurabile: un’impronta digitale, un nome, un foglio di carta. Quello che c’è dietro — la singolarità ineludibile di ogni persona, l’unicità di ogni esperienza — perde di significato.

Ecco, le storie si ribellano a questo pensiero. Le storie rivendicano l’eccezione e l’individualità contro la regola uniformante: narrarle, e ascoltarle, fa parte della nostra possibilità di riscatto morale. Perché non ci parlano di una massa confusa, ma di persone. Non dicono di clandestini, ma di esseri umani: liberi, affamati di felicità, terrorizzati dal destino dei propri cari. Esattamente come noi.

Non crediate che sia soltanto un problema transitorio o legato a un dato periodo storico: in gioco c’è molto di più. Perché è in luoghi come i campi che oggi stiamo decidendo, concretamente e dolorosamente, che cos’è un essere umano. La libertà delle persone in fuga misura la nostra: più la neghiamo, più sprofondiamo in un abisso di vergogna e crudeltà, e più la libertà che viviamo ogni giorno suona come un insulto. La loro possibilità di avere un futuro misura il nostro. La loro stessa esistenza, in breve, misura il valore della nostra.

È terribile pensare a tutti questi individui come a una semplice massa che giunge verso di noi in maniera casuale e scomposta; ed è sbagliato anche pensarli come oggetti inerti e semplicemente bisognosi di cure.

No, essi testimoniano invece una profonda dignità. Una resistenza all’oppressione, alla violenza terrorista o istituzionale, ai recinti, alla crudeltà gratuita, alla disperazione. Un fotografo siriano che ha lavorato nei campi dei rifugiati ha detto: «Le persone che ho incontrato sono nelle peggiori condizioni possibili, ma hanno il desiderio di continuare a rimanere umani». E dunque soggetti liberi.

È dallo straniero che viene che giungono i doni migliori, quelli che non avremmo mai sospettato di ricevere per paura o diffidenza. Albert Camus — uno dei primi a ricordarci che lo straniero giace dentro di noi — annotava: «Al mondo esiste la bellezza ed esiste l’inferno degli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi». Restare fedeli alla bellezza e agli oppressi: non conosco modo migliore per dire quello che siamo chiamati a fare, di fronte a chi si mette in viaggio.

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