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Versi in attesa del reale

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ADAM ZAGAJEWSKI

Versi in attesa del reale

Scrittore e poeta. Adam Zagajewski
Scrittore e poeta. Adam Zagajewski

La poesia di Adam Zagajewski possiede una formula sconosciuta a molti poeti: la semplicità nel dire cose complesse. È l’alchimia di ricreare il linguaggio per conferirgli un timbro di chiarezza, una tonalità originaria di rivelazione, e rifletterla nel verso. Per Zagajewski la poesia «cresce sulla contraddizione, ma non la ricopre», perché la vita è tradimento: nell’attimo in cui la si nomina, scompare. Da qui nasce il cortocircuito con l’esistenza, che rimanda inderogabilmente la sua effettualità a un altro piano del vero. «La luce guarda l’ombra dall’alto, con indulgenza, forse con rimpianto». Il poeta e connazionale Jarosław Klejnocki ha detto che la poesia di Zagajewski, più che epifanica, può definirsi epicletica, perché aspira «a una trascendenza che pare attenderci». L’attesa morandiana del reale e la sua costante, impermeabile parusia sono i tratti essenziali dell’opera dello scrittore polacco.

«L’amore per la poesia – spiega Zagajewski – è scaturito dal precoce amore per la lettura di libri d’ogni genere. In un primo momento la poesia mi ha intimidito, poi ho capito che l’approccio ad essa è diverso dal modo in cui leggiamo romanzi. C’è maggiore libertà. Ci concentriamo su quanto a noi parli e, almeno all’inizio, non abbiamo bisogno di apprendere la totalità del libro. Possiamo respingere alcune poesie e amarne altre. Concentrarci su tre righe e ignorare il resto. Jean-François Revel pubblicò un’antologia di poeti francesi, nella quale omise intere strofe di poesie ben note, dicendo “non c’è abbastanza poesia in questa particolare strofa”. Infine, un istante magico si svela e ci trasforma. Questa traccia di lettura non è mutata per me negli anni, inizio ancora da tre righe».

Zagajewski, in onore alla grande tradizione slava (Mandel’stam, Miłosz, Brodskij), è anche saggista ironico e smaliziato. Lo testimonia Tradimento, il primo testo tradotto in Italia da Adelphi. Si coglie in esso la ferita aperta tra scrittura in versi e scrittura continua, e il loro possibile punto di sutura.

«C’è molta differenza tra poesia e prosa - sottolinea il poeta -. Per me è, in parte, una questione legata all’energia narrativa che può essere maggiormente estesa, ad esempio, nei saggi. Questi sono come “brevi storie intellettuali”. Le poesie di solito sono oblique; nel saggio, invece, si può attaccare apertamente un problema. Esistono due aspetti nella vita mentale: attimi di rivelazione, epifanie, e storie, narrazioni, continuità. La poesia lirica è vicina al primo, il romanzo a quest’ultimo aspetto. Il saggio è una forma ibrida. Quando scrivi una poesia pensi, ah, ho trascurato di dire qualcosa. E anche dopo aver terminato un saggio pensi, ah, ho dimenticato di dire questo o quello. Tale sensazione di deficit dà una spinta... Ciò che collega i due generi, per me e forse più in generale per i poeti, è la presenza di immagini su entrambi i lati della divisione. Tendo sempre a pensare che la poesia non può e non deve essere separata dalla “conversazione del genere umano”, da idee, dibattiti, dilemmi – e i saggi possono essere la corda che unisce i due mondi».

Prosa e poesia: ispirazione civile e metafisica. Prosegue la dittologia sinonimica. A Zagajewski, cantore dello sterminio degli ebrei, aedo di guerra e operatore “lirico” di pace, interessa cogliere le irruzioni del trascendente anche dentro al cuore della rivendicazione storica, ribaltando il potere politico in una maggiore attenzione per l’impercettibile, l’infinitamente piccolo, come rilevava Seamus Heaney. «Cercare di fondere queste due sfere è forse il mio ideale personale di poesia. “Metafisica”, però, è una parola delicata, sovradeterminata. Se ti trovi in un museo e guardi i paesaggi tradizionali, vedi nella parte inferiore della pittura case e alberi, mulini e chiese e, al di sopra, le nuvole. Esse sono così effimere, ma nel dipinto sono lì sempre, per l’eternità, bianche, innocenti. Tanto che noi pensiamo, oh sì, come potremmo vivere senza le nuvole, senza il cielo. Per la poesia l’equivalente di nuvole e di cielo è una sorta di “orizzonte”, o il senso di possibilità più alte».

Zagajewski vive tra Cracovia e gli States, dove insegna letteratura all’Università di Chicago. In America è diventato celebre per la lirica Try To Praise The Mutilated World, scritta all’indomani dell’11 settembre. «La poesia non è priva di valore negli Stati Uniti. È il risultato di sforzi coscienti intrapresi da molti (poeti, universitari, giornalisti), non una situazione “naturale” o tradizionale. Non è data. L’esistenza di tanti “programmi di scrittura creativa”, con centinaia se non migliaia di insegnanti e studenti che cercano visibilità, che pubblicano, che organizzano convegni, esattamente come i chirurghi o gli scienziati informatici, produce un effetto».

La modernità liquida sembra oggi non tollerare la poesia e il suo tempo concentrato, riflessivo: benché ne abbia intimamente bisogno. Relegata nell’ombra, come diceva Montale «anima verde che cerca/ vita là dove solo/ morde l’arsura», per uno strano paradosso, riesce ad esibire un valore positivo proprio nell’inverso, nella negatività del suo stato. «Ho paura di essere scettico sul ruolo della poesia nella società. A meno che non siamo d’accordo che la poesia sia come l’omeopatia. Funziona per un po’, non funziona per gli altri. Dovremmo essere sobri, realistici. Quando Auden diceva “la poesia non fa accadere nulla”, si sbagliava, credo. Qualcosa accade ma in modo impercettibile, lento e inaspettato. Sarebbe poco saggio fare qualsiasi tipo di pianificazione con la poesia come fosse la pietra angolare di un piano. No, è sottile, difficile da prevedere e non molto pratica. Ma la nostra vita deve trascendere le considerazioni pragmatiche. Non andiamo a un concerto per migliorare il sistema di trasporto urbano. Miglioriamo il sistema di trasporto urbano per essere in grado di andare a un concerto».

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