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Corpi nella tana di Kafka

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biennale danza

Corpi nella tana di Kafka

«Outlander» di Shobana Jeyasing Dance Company . Foto di Akiko Miyake
«Outlander» di Shobana Jeyasing Dance Company . Foto di Akiko Miyake

«Agitare Venezia come fosse una bottiglia di bollicine per farne uscire una vittoria del respiro sulla presunta agonia». Rubata alla piccola ma riuscita mostra universitaria Lost in Venice - Disguidi veneziani, a cura di Angela Vettese e Marco Bertozzi, questa frase può riassumere i quattro anni della Biennale Danza di Virgilio Sieni, giunti proprio oggi al capolinea. Il coreografo fiorentino ha trascinato la danza in campi e campielli, palazzi e squeri; ha puntato su laboratori per giovani danzatori, affidati a coreografi di varie provenienze e trasformati in occasioni spettacolari belle, brutte, indifferenti.

Curioso come questo particolare - preoccupante per qualsiasi altro festival - sia invece risultato quasi ininfluente nel progetto utopico di una Venezia trasformata in spazio, tempo, energia di corpi, a prescindere dal valore oggettivo non solo dei suoi laboratori (tanto coltivati nelle Biennali College) ma anche dei suoi spettacoli (più numerosi nelle Biennali festival). D’altra parte, come era prevedibile, Sieni ha marcato il territorio più di qualsiasi altro direttore coreutico in Laguna con il suo personale approccio alla danza comunitaria e dell’incontro, della trasmissione di gesti ed esperienze fisiche, con il suo gusto estetico esclusivista (cui si deve il ritorno, evitabile a nostro avviso, degli stessi artisti).

Sono state Biennali, le sue, quasi corroborate da titoli altisonanti, come il prescelto per il 2016: Senza il mio corpo lo spazio nemmeno esisterebbe. Da questa frase del filosofo francese Maurice Merleau-Ponty, facilmente ribaltabile nel suo contrario, non fosse altro per l’esistenza di più spazi a cui il corpo inerisce e di più mondi in cui la sua migrante spazialità ormai si realizza, - come ha dimostrato l’algerina-francese Nacera Belaza, soprattutto nella frizzante novità Sur le fil -, è nato un festival teso ad interagire con la Biennale Architettura ma anche svagato, forse contradditorio. Venezia porta alla deriva, ma è salutare.

Il conferimento del Leone d’oro alla carriera ad un’artista rabbiosamente geniale come Maguy Marin (abbiamo tratteggiato il suo ritratto sulla «Domenica» del 15 maggio), lontanissima dalla poetica di Sieni, ne è stato il primo, positivo, campanello d’allarme, appena preceduto da un inatteso Outlander. L’evento site specific della coreografa Shobana Jeyasingh è stato prestato dalla Fondazione Cini nel suo Cenacolo Palladiano. Qui, di fronte a una fervida copia delle Nozze di Cana del Veronese (l’originale è custodito al Louvre), l’artista inglese di origini indiane ha fatto sfilare su di una passerella, - il pubblico distribuito ai lati -, tre diversi personaggi, espunti, per ipotesi e fantasia, dalla gran folla evangelica. Ecco una danzatrice enfatica torturarsi nel suo ostinato rotolio, nelle sue pose complicate a terra e sopra una musica sacra; ecco una sua presunta controfigura moderna - gambe nude, vestituccio nero quasi up to date - esprimere una spregiudicata tensione verso l’alto. Di seguito un nobile danzatore mulatto reinventa un Baratha Natyam divagante e con falsi “mudra”(gesti delle mani), tra impetuose aperture di braccia e gambe, e incerte sonorità di legni battuti, attinenti alla principale danza classica indiana.

Moderno e global, più che davvero contemporaneo, come molta coreografia inglese, Outlander “lo straniero”, stride con la sobria narrazione di Der Bau (La tana) della coppia franco-tedesca Isabelle Schad e Laurent Goldring, ispirata dall’eponimo racconto, forse incompiuto, di Franz Kafka. Solo lei, ignuda ma purissima, tiene la scena per quasi un’ora, contraendo e distendendo il suo corpo nei respiri impossibili, nelle tensioni muscolari. Tutto sotto una lampada di luce ora dolce ora implacabile, e sopra un tappeto coperto di drappi conquistati per fare scudo alla propria nudità, creare onde di vento oppure ordire una “tana”: una gran matassa entro la quale rifugiarsi e rotolare e dalla quale uscire. L’uomo-insetto kafkiano è raziocinante: sa come disporre in ordine i suoi drappi (metafora di tumulti, grumi psicologici, semplici pensieri) prima di accasciarvisi sopra come fa la brava coreografa e performer attiva a Berlino, tanto distante, nella sua chiarezza espositiva minimale, dalla confusione, di nuovo attratta dal mondo globale, di Emanuel Gat.

Giunto, in Sunny, alla peggiore e più vacua delle sue prove coreografiche, l’artista israeliano attivo in Francia, distrugge l’originalità dell’apporto musicale del poliedrico Awin Leon, il ricordo delle creazioni riuscite e lo splendore tecnico dei suoi ballerini. Per fortuna la tagliente verità espositiva di Daniele Ninarello, bravissimo nel tempestare di vibrazioni folli e pensose il suo Kudoku, duetto con il musicista Dan Kinzelman, si poteva accostare all’intenso Verso la specie: rituale in nero, ritmico, arcaico e attualissimo di Claudia Castellucci. E ancora al coriaceo Vortex Temporum di Anne Teresa de Keersmaeker, e alla superiore allegrezza compositiva della Trisha Brown Dance Company, priva della sua coreografa d’elezione.

Inchiodata ad un letto d’ospedale e non più attiva, a Trisha Brown andrebbe comunque consegnato un prossimo Leone d’oro per aver cambiato il volto della danza contemporanea. Speriamo le possa essere conferito dal futuro direttore della Biennale Danza. Ma chi sarà?

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