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«Everybody's in Show-Biz», quando i Kinks capirono di…

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«Everybody's in Show-Biz», quando i Kinks capirono di aver anticipato il glam

A ragionare con i numeri a portata di mano ci sarebbe da parlare, come al solito, della quarta forza del rock britannico anni Sessanta, dopo Beatles, Rolling Stones e Who. Ma così va sempre a finire che fai un po' torto ai Kinks, band dei fratelli-coltelli Ray e Dave Davies che, per dirne un paio, hanno messo la firma su brani imprescindibili come «Waterloo Sunset» e difatti inventato il concetto stesso di concept album. Perché, prima e dopo di «Tommy», vennero «The Kinks are the Village Green Preservation Society» e «Arthur».
Quella strada pioneristicamente intrapresa alla fine dei Sixties, divenne all'inizio del decennio successivo la via maestra e i fratelli Davies rimasero sul pezzo. Per capire di cosa parliamo, è appena uscita per Rca Legacy Recordings la ristampa di «Everybody's in Show-Biz», doppio album datato 1972 che nel primo disco proponeva brani inediti che avrebbero dovuto rappresentare la colonna sonora del rockumentary «The Colossal Shirt» sulle gesta on the road della band, poi mai realizzato, nel secondo la registrazione del concerto alla Carnegie Hall di New York (2 e 3 marzo '72) che arrivava dopo cinque anni di divieto di esibirsi negli States da parte della American Federation of Musicians. La nuova versione include l'opera originale, prodotta da Ray Davies, assieme al resoconto di sessioni in studio mai pubblicate sinora (registrate per l'album nel 1972 presso i Morgan Studios di Londra) più altro materiale live dal doppio concerto alla Carnegie. È un periodo di transizione per i Kinks. «Lola», loro ultimo album «classico» nonché ultima fatica realizzata per la Pye Records, è ormai acqua passata. Con «Muswell Hillibillies» hanno sciacquato i loro panni inglesi nel mare magnum della tradizione americana – che il country li intrigasse lo si capiva in effetti già in «Lola» - regalandoci perle come il tormentone «Have a Cuppa Tea». Rieccoli a queste latitudini, ma alla luce di una diversa consapevolezza: i ragazzi si sono accorti tutto d'un tratto che il rock è teatro e il rocker, per far bene il proprio mestiere, deve farsi attore di sé stesso. E non poteva essere diversamente perché, in quegli stessi mesi, un certo David Bowie si reinventava come «Ziggy Stardust». A riascoltarlo oggi, per giunta in un'edizione che potremmo definire filologica, «Everybody's in Show-Biz» appare un disco da rivalutare, opera complessa, a tratti sfilacciata, sul difficile quanto divertente mestiere di rockstar in giro per il pianeta. Ballad monumentali come la pianistica «Sitting in my hotel» o «Celluloid Heroes», con l'evocazione di tutto il pantheon hollywoodiano dei Rudolph Valentino e dei Bela Lugosi, la folkeggiante «Supersonic rocket ship» e la strafottente «Maximum Consumption» («La vita continua a usarmi/ continua ad abusarmi/ mentalmente e fisicamente») sono qui per ricordarci che il movimento glam fu figlio della cultura mod. E Ray Davies e compagni – che della cultura mod furono campioni – di fronte a tutta quella festa non potevano certo restare a guardare.
The Kinks
«Everybody's in Show-Biz»
Rca/Legacy Recordings

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