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I bambini devono diventare adulti

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I bambini devono diventare adulti

«A Fukushima, nel parco di Shonobuyama, le farfalle geneticamente corrotte dalle radiazioni nell’incidente del 2011 venivano a morire nelle teste aperte delle Unità. Farfalle miopi che avevano ereditato dalle loro madri il guasto genetico scatenato dai radionuclidi, farfalle con ali troppo piccole e antenne deformi che smettevano all’improvviso di decifrare il paesaggio e collassavano.»

La storia di Bambini di ferro di Viola Di Grado è semplice. Una bambina di nome Sumiko viene prelevata e portata in un istituto correttivo. Nell’istituto correttivo incontra un ex bambina, Yuki, cresciuta nel medesimo istituto e ormai istitutrice o operatrice, che cerca di stabilire con lei un qualche rapporto. Sumiko non parla, e Yuki non sa abbracciare o accudire, perché i suoi sentimenti assomigliano a recite. Yuki ha imparato i sentimenti a memoria, come le poesie, è una bravissima imitatrice per la quale, tuttavia, la maschera non è mai diventata il volto. Probabilmente per un difetto di fede. Yuki è stata cresciuta da una madre meccanica, un mecha. Yuki ha potuto entrare nell’Unità materna che le è stata assegnata come Shinji Ikari nel suo Evangelion. Solo che il mondo salvato dai ragazzini, in Di Grado, non è una battaglia con gli angeli per preservare se non l’interezza, la forma umana del mondo, ma rimane una battaglia metaforica sul perché non esiste la malattia, esistono i sintomi e quei sintomi sono ciò che ci consente se non l’interezza, la forma umana del mondo e dunque bisogna battersi per preservarli. I bambini di ferro educati sentimentalmente da madri di ferro si riposano la testa in gabbie di Faraday occasionali, letti, cassetti, sbarre. Intrecciata alla storia dei bambini di ferro c’è la storia del Buddha, di un Buddha e di suo cugino Ananda e di sua madre morta e di un corpo di Buddha che muore.

Viola Di Grado ha la possibilità linguistica di gestire le avventure interiori, la sua lingua possiede echi e subordinate, è vasta e larga, ma quante “primavere anaffettive” dovranno trascorrere perché questa sua lingua autentica, piena possibilità e di immagini, non ceda ancora alle tentazioni di un’avventura interiore, di una metafora, e racconti qualcosa che non sia una dimostrazione o un mosaico? «Improvvisamente capì di non essere al sicuro. Capì che tutto ciò che è stato pensato continua a essere pensato da qualche parte; tutto ciò che è stato amato continua a essere amato da qualche parte; tutto ciò che è stato sofferto non può essere smaltito ma solo riciclato ad altre forme.»

Inoltre i suoi programmatori di madri perfette (Buddha è in ogni cosa come particole di polvere ma è soprattutto nelle Unità materne) somigliano a quei monaci buddhisti di un racconto di Arthur G. Clarke che si fanno installare un computer capace di elencare tutti i nomi di Dio. Quando la macchina ha finito, le stelle cominciano a cadere e il mondo esplode. I monaci informatici di Di Grado, Sada per tutti (è daltronde il capo, fisico e morale), scelgono l’implosione per i loro bambini difettosi e per le loro Unità madri infettate da virus informatici, e l’implosione – o forse è l’essenza stessa del buddhismo – conduce alla ripetizione che non sempre tuttavia in questo romanzo funziona come deve, cioè come un’eco.

Poiché, nonostante la nostra tendenza a pensarli separati, i libri sono la continuazione uno dell’altro, credo che il romanzo di Viola Di Grado riporti indietro la discussione narrativa, romanzesca, sulla maternità, rispetto a Centro Micron di Marta Baiocchi (minimum fax, 2011) dove ciò che faceva marcire gli esseri umani – la marcescenza a cui tutti, non solo le macchine come in Bambini di ferro, sono destinati, la marcescenza che si chiama vita – era l’essere stati partoriti da ventre di donna, e da quel punto in poi nessuna madre perfetta, umana o meccanica (umana adottiva nel caso di Baiocchi) avrebbe potuto crescere un figlio perfetto.

Bambini di ferro è invece un romanzo di fantascienza postuma, nel quale il dispositivo narrativo, l’ipotesi fantascientifica, è in essere nel contemporaneo di chi legge. Viviamo già in un mondo dove la funzione del materno è stata definita e separata dalla madre, dove i “corredi informatici” hanno parzialmente sostituito i “corredi genetici”, dove si discute se sia lecito o no, e come, abdicare a un diritto naturale delle donne per un diritto giuridico universale (soi-disant).

Tuttavia, ci si reincarna in esseri più infelici ma più forti e diventare adulti è forse l’unica forma di reincarnazione possibile, e questo anche mi tengo stretta del terzo romanzo di Viola Di Grado. «Non importa se mi sarai sempre fedele, Ananda. Io ti vorrò bene comunque, è una cosa che non voglio distruggere.»

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