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Capitali e mercanti del Levante

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Capitali e mercanti del Levante

C’è stato un periodo di tempo, lungo quattro secoli, dal Cinquecento alla prima metà del Novecento, in cui il Levante ha costituito l’epicentro di un dialogo-confronto fra Oriente e Occidente, fra Islam e Cristianesimo. E ciò, innanzitutto, perché tra la Francia e l’Impero ottomano s’era stabilita una sorta di alleanza politica, dovuta a un motivo di natura strategica; ossia, alla minaccia che costituiva per entrambi l’espansione dei dominî di Carlo V d’Asburgo, sacro romano imperatore, re di Castiglia e d’Aragona, di Napoli e della Sicilia, la cui egemonia s’estendeva dai Paesi Bassi a gran parte del Nuovo Mondo. D’altro canto, l’Impero di Solimano il Magnifico era composto da una quarantina di regni e sultanati via via soggiogati ma che avevano conservato per lo più la loro identità originaria. E sebbene la Sublime Porta avesse la “guerra santa” per sua precipua missione, e la Francia rappresentasse per le proprie tradizioni la potenza crociata per eccellenza, all’atto pratico il realismo politico era giunto a prevalere sul fanatismo religioso.

Ma la “ragion di Stato” non fu l’unico motivo per cui quella parte di terre affacciate sulle sponde del Mediterraneo orientale divennero la sede di un complesso di intensi rapporti culturali e commerciali, di scambi e compromessi, che, per quanto fragile e difficile da mantenere in certe fasi più accidentate, continuarono a intercorrere fra Oriente e Occidente, fra un Impero come quello turco esteso dall’Anatolia all’Egitto e il cuore dell’Europa.

A spiegare perché e in qual modo il Levante abbia svolto per tanti secoli una funzione cruciale in questo genere di raccordi, nelle loro diverse connotazioni e varianti, è un saggio efficace e avvincente dello storico inglese Philip Mansel. Poiché ha tracciato, sulla base di una ricca documentazione e di un’analisi approfondita delle mutevoli vicende susseguitesi da un’epoca all’altra, un ampio affresco da cui è dato comprendere quali fattori e circostanze portarono in particolare tre città (come Smirne, Alessandria e Beirut) a esercitare un ruolo preminente per lo sviluppo di un insieme di interrelazioni fra Oriente e Occidente.

L’elemento propulsivo a questo riguardo era la vocazione mercantile e cosmopolita che costituiva, sia pur con sembianze diverse, il loro comun denominatore. Quali scali portuali eminenti, a capo di svariati empori e traffici, esse erano anche altrettanti crogioli di genti e di etnie, di lingue e di culture diverse, e perciò anche di fedi e confessioni religiose differenti. Non per questo connivenze e tolleranze, fra musulmani e cristiani, come fra comunità di altre matrici, furono sempre esenti da scontri e lacerazioni, da violenze e persino da pogrom. Tuttavia, a tenere insieme o a ricomporre, all’occorrenza, il tessuto connettivo delle tre città levantine era, in fondo, un abito mentale che privilegiava gli affari rispetto a ogni altro paradigma, e perciò una certa predisposizione all’assimilazione e all’integrazione.

D’altra parte, non era solo la presenza di chiese e sinagoghe, accanto alle moschee, a caratterizzare la fisionomia di Smirne e di Beirut, come di Alessandria. Insieme a mercanti e imprenditori, erano attivi nell’Impero ottomano, a partire dal Seicento, anche consoli e magistrati europei, con i loro particolari statuti e privilegi. Queste forme di rappresentanza, separate dalle giurisdizioni locali, avevano favorito perciò l’instaurazione di norme e consuetudini, a protezione dei cittadini stranieri.

Nel corso dell’Ottocento, man mano la Francia e l’Inghilterra acquisirono una posizione egemonica, il Vicino Oriente, da pianeta a sé stante per i suoi tratti distintivi caleidoscopici, assunse per lo più le fattezze di un mondo esotico e decadente. Inoltre, nell’opinione comune degli europei si diffusero certi stereotipi che avevano a che fare con l’idea di una piacevolezza della vita segnata dall’assenza di regole categoriche e dalla licenziosità dei costumi.

Fu peraltro questa l’ultima stagione in cui a Smirne, come ad Alessandria e a Beirut, gli interessi seguitarono a essere preponderanti rispetto agli ideali politici e l’empirismo rispetto ai dogmi religiosi. Dai primi del Novecento, a cominciare dalla rivoluzione dei Giovani Turchi di Kemal Ataturk, l’insofferenza nei riguardi delle potenze occidentali e la reviviscenza di forti sentimenti religiosi concorsero man mano a modificare radicalmente lo scenario del Levante. Finché, dal secondo dopoguerra a oggi tanto i risentimenti nazionalistici accumulatisi nei confronti dell’imperialismo quanto la diffusione di tendenze fondamentalistiche islamiche hanno preso via via il sopravvento e reciso quanto ancora era rimasto di determinate esperienze del passato.

Peraltro, secondo Mansel, al posto di città “miste” e “globali” d’un tempo (come Smirne, Alessandria, Beirut), “nuovi Levanti” sono sorti ai giorni nostri, nell’età della globalizzazione, per i loro intrecci fra cosmopolitismo e multiculturalismo. E si chiamano Londra, Parigi, New York, Dubai, Bombay, Singapore.

Philip Mansel, Levante. Smirne, Alessandria, Beirut: splendore e catastrofe nel Mediterraneo, Mondadori, Milano,
pagg. 470, € 32

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