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Faldoni in foto come «Codex»

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Arte

Faldoni in foto come «Codex»

Bisogna sentire la pesantezza di quel panno nero che sostituisce la porta e avvolge come ali di una misteriosa creatura. Ed è così, aprendosi un varco non alla luce ma al buio, che si entra in una delle trecentotrenta stanze dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, a Palazzo Ricca in via dei Tribunali, dove riposano sessantamila faldoni raccolti dal 1539 al 2001, e dove Antonio Biasiucci ha inaugurato il ciclo delle Residenze d’artista, realizzando su invito della Fondazione Banco di Napoli, presieduta da Daniele Marrama, uno straordinario lavoro in due parti, Moltitudini e Codex, il primo multimediale e aereo all’interno dello stesso archivio, il secondo fotografico e scultoreo nell’immensa sala d’ingresso del Museo Archeologico. Due spazi monumentali e codificati, che hanno spinto Biasiucci verso un nuovo capitolo della sua originalissima ricerca, suggerendo di accogliere dopo i segni della ritualità, della geologia e della vecchiaia che rende sacro e remoto ogni corpo, anche i segni dell’umanità moderna, i numeri, le parole e il luogo che contiene entrambi, il libro.

Se c’è un tratto che avvince nel lavoro di Antonio Biasiucci, nato a Dragoni non lontano da Napoli nel 1961, è la profonda linearità della sua evoluzione d’artista. Un artista antichissimo quando trasforma il recinto della stalla in un tempio, quando si affaccia sul bordo del vulcano e vede nel magma l’impasto che nutre il mondo, e ancora quando illumina il cranio di un soldato ucciso e quella voragine sulla calotta diventa un altro cratere e al tempo stesso un grembo, una culla, una ciotola. Da sempre guardando le fotografie di Antonio abbiamo guardato la morte e per miracolo tutto mediterraneo abbiamo percepito la vita. Ieri a guidarci in questo sprofondare e risorgere erano l’occhio oscuro della vacca sacra, la crocetta incisa sulla volta del pane, il riverbero abbagliante dell’ex voto. Oggi sono i numeri dipinti sulle facce dei faldoni dell’Archivio Storico e Biasiucci non a caso ha scelto i volumi del 1600. Numeri magici, l’uno che è la verticale dell’uomo, la sua unità di misura, e il sei il germoglio che esce da un campo.

Senza sforzo ogni vita entra in una comunità più grande. E quella dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, il più antico del mondo, memoria dell’istituto che ha inventato alla fine del XV secolo il sistema fiduciario - ben prima della nascita ufficiale attribuita alla Banca d’Inghilterra – è composta di diciassette milioni di esistenze, di cui i “giornalisti”, impiegati che registravano giornalmente le operazioni, riportavano non solo i dati anagrafici e i movimenti del conto, ma anche la provenienza e la destinazione del denaro riscosso. In un giorno come tanti, il 6 ottobre 1606, in fila al banco – “la banca nasce uomo”, ricorda Sergio Riolo, direttore del Museo dell’Archivio - accanto a un bovaro di Caserta, al procuratore di un principe e a una donna che ritira l’affitto attende il suo turno Michelangelo da Caravaggio, a cui Nicolò Radolovich ha commissionato una Madonna con bambino “di altezza palmi tredici e mezzo e di larghezza palmi otto e mezzo”, per la quale anticipa duecento ducati al pittore.

Di fronte alla ricchezza delle tracce, che insieme formano l’identità e la memoria di Napoli - nei libri vengono registrati persino i numeri del lotto e i bambini che li estraggono a partire dal XVII secolo – emerge un problema. Come rappresentare questo secondo vulcano, che erutta ogni giorno un nome e lo fonde nei precedenti? Con quali immagini inserire l’intimità di ogni evento nel flusso collettivo della storia, come suggerisce Gianluca Riccio, curatore delle due mostre e delle residenze d’artista? «Con un piccolo gesto che restituisce la linfa», risponde Antonio Biasiucci, e non è modestia, ma fatica, sudore, silenzio di chi ha eletto maestro il teatro di Antonio Neiwiller e ha imparato ad aggiungere la sua cifra inconfondibile togliendo, asciugando, meglio prosciugando ogni forma fino a riportarla all’origine e al suo eterno presente. E in quale direzione si sia avviato Biasiucci lo si capisce entrando nella camera al terzo piano dell’Archivio Storico, vertice di un meraviglioso percorso multimediale realizzato da Stefano Gargiulo. Nel buio, varcata la soglia, s’intravedono allineati su scaffali altissimi centinaia di faldoni, quasi una pelle cartacea che riveste la stanza, e da quelle pagine, evocati dal sortilegio di una camera che non è altro che la camera oscura del fotografo, escono Moltitudini di dormienti, uomini, donne, e gli occhi, la bocca scorrono sul rilievo dei libri insieme ai teschi e alle forme di pane. Tutto si muove lentamente, al ritmo della musica misterica di Pasquale Scialò, perché lenta era un tempo – ancora attuale nella pratica quotidiana di Biasiucci - l’emersione dell’immagine dal bagno acido. Un attimo e la fotografia si fissa, e poche strade più in là attraversando Spaccanapoli, passando accanto alle Sette opere della Misericordia di Caravaggio e accarezzando il cranio di bronzo a guardia di un altare, si giunge al Museo Archeologico e a Codex, polittico di quattordici metri per sei che ritrae uno a uno sessantaquattro faldoni dell’Archivio Storico. Faldoni chiusi, monolitici nella stratificazione delle pagine, come sedimentazioni geologiche – faldone ha la stessa radice di falda – o tracciati di sismografi. Faldoni diversi per natura perché Libri dei numeri, Libri dei nomi e Libri dei fatti, diversi nel corpo perché ogni altezza rappresenta un tassello del profilo della città, eppure uniti da quel buio che li ha generati, da quel panno nero o fondale di teatro che li spinge nella loro potente individualità e coralità verso di noi. E pare di capire che per dare e avere, è pur sempre una banca, e per essere, è pur sempre la vita, bisogna lasciare un segno, anche piccolissimo.

Antonio Biasiucci. Moltitudini
, (installazione permenente) Napoli, Archivio Storico del Banco di Napoli; Antonio Biasiucci. Codex, Napoli, Museo Archeologico Nazionale, fino al 18 luglio. Catalogo Contrasto

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