Cultura

Gomorra o parodia

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scarpe strette

Gomorra o parodia

È la semi-fine del mito. Quel mostro di Genny Savastano (Salvatore Esposito, attore straordinario), figlio viziato del boss nella prima stagione di Gomorra, la serie, va dappertutto. A volo radente tra se stesso: il sé attore e il sé Genny. Oppure Marco D’Amore, Ciro l’Immortale nella finzione, che a Genny ha prima insegnato a uccidere e che poi ha tentato di uccidere. Anche lui, dappertutto. Buono, cattivo, simpatico. Pubblica foto su Facebook insieme a Esposito (“mio fratello”) a guisa di “sberleffo”. Scrive: «... per prenderci in giro! Rivolto a ‪#Ciro e‪ #Genny rivolto a chi pontifica di morale ed etica attaccando un prodotto televisivo».

Insomma, tra sé e sé finisce che s’intasa tutto lo storytelling. Esposito, anche lui vivace su Facebook, fa lo spot di Italia Team per le olimpiadi di Rio: «Tutti i ragazzi che saranno lì a Rio a portare in alto la bandiera italiana... Vuagliò spaccati tutti i cosi... si no vengo io a Rio de Janeiro e spacco io tutto». Tra sé e sé – Esposito o Genny che sia – fa testacoda di narrazione, anzi, di ruolo: crossdressing del bene e del male. Proprio una semi-palingenesi. È Marlon Brando che fa la caricatura del Padrino e depotenzia la saga fino a sgonfiarla. È la parodia autoprodotta dall’originale.

Ecco Gomorra 2, la serie. Il male enorme e invincibile; il brulicare veloce della meta-lingua astrusa di Scampia; la morte facile, veloce, di velocissime ammazzatine e la catarsi, infine, ritrovata solo nel conato dei social. Dove è tutto un buttatoio di contenuti. Gli attori che ne approfittano per farsi pubblicità. E la parodia messa in opera dall’originale. Come se Vito Corleone dicesse «io sono vero, è Marlon Brando il film». Come se il Minotauro si mostrasse per dire «queste non sono corna». In un quadro di Magritte, va da sé. Tra sé e sé.

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