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Il Paese della verticalità

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Storia

Il Paese della verticalità

La fiamma eterna che ricorda, a Yerevan,  il genocidio armeno del  1915
La fiamma eterna che ricorda, a Yerevan, il genocidio armeno del 1915

In Armenia si viaggia solo in verticale: chi per la spiritualità, chi per l’altitudine. In orizzontale è rimasto appena un fazzoletto di terra poco più grande della Sicilia, a dispetto del gigantesco Regno antico che si estendeva dal Caspio al Mediterraneo: una manciata di secoli dopo, nel 301, il Paese fu il primo ad adottare il cristianesimo di Stato.

Proprio in questi giorni è qui pellegrino Papa Francesco, ospite di Karekin II, il Catholicos (la massima autorità) della Chiesa apostolica armena: durante la visita, il pontefice ha pregato per le vittime della «prima tragedia del XX secolo», il «genocidio» che nel 1915-18 ha quasi sterminato il popolo armeno.

Pianificato dai Giovani Turchi, il genocidio ha mietuto più di 1,5 milioni di vittime, senza contare l’odio e le persecuzioni germinati già a fine 800: il lutto nazionale si commemora ogni 24 aprile, giorno dell’inizio di arresti e deportazioni, la cui «destinazione finale» era il deserto siriano. Anche per questo uno dei simboli della repubblica caucasica è il melograno, in ricordo del sangue versato e dell’unico cibo a disposizione dei deportati: un chicco al giorno per circa un anno.

A Yerevan, la capitale, è stato eretto, a fine anni 60, un Memoriale: una fiamma eterna protetta da 12 lastre di basalto e una stele di 44 metri divisa in due, in ricordo della separazione forzata tra Armenia orientale e occidentale (ora Turchia), ma pure della comune tensione alla verticalità, dal momento che le punte sembrano ricongiungersi verso l’alto. Il complesso è molto frequentato da locali, foresti e autorità internazionali, che qui piantano i pini della memoria. Purtroppo il giardino non è altrettanto affollato: solo una trentina di Paesi al mondo ha riconosciuto il genocidio armeno. Nel museo adiacente sta incisa come monito la frase di Hitler: «Chi parla più oggi del genocidio degli armeni?». Era il 1939, l’olocausto stava per iniziare.

Nel XIV secolo fu Tamerlano a violare l’Armenia, terra da sempre saccheggiata e invasa, da romani, bizantini, ottomani, curdi, persiani, mongoli e infine dall’Urss, a cui fu incorporata nel 1922 e fino al ’91, mentre oggi è una repubblica parlamentare con circa 3 milioni di abitanti più 7 milioni della diaspora (soprattutto in Russia, Usa e Francia).

Forte è l’influenza russa, dalla minoranza dei molokani alle architetture sovietiche della capitale o di Gyumri e Goris. Il lago di Sevan, poi, è un incantevole set cechoviano a 2000 metri di altitudine, come circa la metà della superficie armena. I paesaggi ricordano ora la Svizzera ora una valley americana, ma è meglio evitare di dirlo a un autoctono perché si offenderebbe: qui tutto è «armeno», dalla capra al basilico.

Eloquente metafora del Paese è l’Ararat, “gentilmente concesso” ad Ataturk dai sovietici nel ’21: oggi il monte, coi suoi 5.137 metri d’altezza, guarda e protegge il suo popolo dall’altra parte del confine, proprio come un armeno della diaspora, che da lontano manda aiuto e sostegno ai connazionali. Qui passò Marco Polo e la leggenda narra che l’Arca di Noè sia ancora sulla cima, dove approdarono i superstiti del diluvio universale.

Ararat è quasi sinonimo di armeno, un popolo la cui spiritualità ha contaminato persino gli alcolici: dalla birra al brandy, tutto si chiama «Ararat». Addirittura il caveau della fabbrica del cognac è detto «paradiso», perché custodisce le bottiglie più pregiate. Sacro e profano, o «pagano» come si dice qui, si tengono: la tradizionale croce armena sta appollaiata su un albero della vita e dai suoi bracci germogliano fiori. Le più famose sono le khatchkar, le croci di pietra, ammirabili a centinaia nel cimitero di Noratus.

Gli armeni sono religiosi e orgogliosi, ma non ostentano nulla; sono ospitali, gentili e straordinariamente ironici, con aforismi come: «In Armenia c’è il mare, ma non c’è l’acqua». La convivialità si apprezza soprattutto a tavola, sbocconcellando il Lavash, un pane “pergamena”, patrimonio Unesco dal 2014. Per apprezzare la creatività armena, invece, si può visitare la casa-museo di Sergei Parajanov, regista poliedrico e visionario, amico di Tonino Guerra, stimato da Pasolini e Fellini. Fu perseguitato e imprigionato dal regime sovietico: quando non poteva girare film, componeva numinosi collage con oggetti comuni, persino in carcere. Tra gli scrittori spiccano Antonia Arslan e William Saroyan, entrambi figli della diaspora; il secondo appuntò: «Avanti, distruggete l’Armenia. Vediamo se ci riuscirete. Mandateli nel deserto senza pane o acqua. Poi vedrete se non rideranno, canteranno o pregheranno ancora».

Il patrimonio culturale va dai complessi megalitici, come Karahunj, alle cittadine caratteristiche come Dilijan, dal tempio ellenistico di Garni agli splendidi monasteri e chiese di Geghard, Sevanavank, Noravank, Tatev… Quest’ultimo è stato recentemente riqualificato, anche grazie a Idea Foundation, una organizzazione filantropica, fondata da Ruben Vardanyan, che incentiva lo sviluppo culturale ed economico dell’Armenia. Tatev ora ha la funivia più lunga del mondo, che permette di raggiungere velocemente il monastero arroccato sulle montagne della regione di Syunik: la sola gita in funivia, con vista lunare sulla valle, vale l’escursione. Il nome Tatev viene dall’architetto: aveva costruito una cupola così alta che, alla fine dei lavori, non era più in grado di scendere. Perciò gridò: «Astvats indz ta tev», «Che Dio mi dia le ali». Il viaggiatore verticale si ricordi di metterne un paio in valigia.

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