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Luce sugli anni di piombo

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l’italia negli anni settanta

Luce sugli anni di piombo

«Ormai sappiamo tutto»: forse basterebbero queste tre parole per riassumere il senso del libro di Vladimiro Satta sugli anni di piombo. Un lavoro che non rappresenta soltanto un corposo profilo storico di quel periodo (dalla fine dei Sessanta ai primi Ottanta, pur se gli «anni di piombo» propriamente intesi vanno dal 1977 al 1982 incluso), ma anche una sorta di piattaforma contro ogni interpretazione dietrologica e complottistica di quegli eventi. Un tomo denso (quasi novecento pagine, corredate da un fitto apparato di note) e ambizioso. Di recente, sono usciti altri libri sugli anni Settanta (una biografia del lugubre Michele Sindona, firmata da Marco Magnani, e una storia della «strategia della tensione», a opera di Mirco Dondi): però Satta resta l’unico a offrire una sintesi generale, in grado di coprire tutti i principali risvolti dell’argomento, dalla lotta armata di sinistra all’eversione di destra.

Una sintesi che genera nel lettore sentimenti contrastanti. Da un lato, non si può non ammirare la padronanza della materia esibita da Satta, la sua profonda conoscenza bibliografica e archivistica (solo per il caso Moro, il numero di pagine complessive sfornate dalle varie commissioni parlamentari ammonta a oltre un milione), lo stile piano e scorrevole, l’equilibrio con cui esamina le tesi altrui. Senza dimenticare le numerose questioni acutamente sviscerate: la scarsa rappresentatività sociale dell’estrema sinistra, capace di riempire le piazze ma non le urne; il suo disinteresse verso le sorti della democrazia, che in realtà sognava di rovesciare; la visione semplicistica e monolitica dello Stato allora imperante fra i contestatori; le memorie edulcorate di molti protagonisti di quella stagione; la violenza rossa, che iniziò ben prima di Piazza Fontana; l’illegalità diffusa come premessa della violenza organizzata; la povertà concettuale del sin troppo celebrato articolo del 1974 di Pasolini sulle stragi e i loro responsabili («Io so, ma non ho le prove»); piazza Fontana che non comportò affatto una restaurazione moderata, bensì propiziò paradossalmente una nuova fase di lotte progressiste; la non coincidenza di stragismo e golpismo. In diverse circostanze, insomma, l’autore sfata brillantemente alcuni luoghi comuni duri a morire, alberganti soprattutto a sinistra.

Dall’altro lato, però, l’insistenza di Satta contro i «falsi misteri» degli anni di piombo desta qualche perplessità. Ridotta all’osso, la sua opinione è che il terrorismo «comunista», lo stragismo neofascista e lo spontaneismo armato di destra siano stati fenomeni autoctoni, mai infiltrati dai poteri occulti, dagli apparati statali e dai servizi segreti internazionali, come d’altronde confermano quasi tutte le sentenze passate in giudicato. Soltanto mantenendo questo punto fermo, secondo Satta, si può fornire una tomografia fedele dei «nemici della Repubblica». È un ragionamento che in passato Satta aveva esposto per il delitto Moro e che ora estende, si può dire, all’intero periodo considerato.

Sia chiaro: l’autore ha senza dubbio ragione quando denuncia l’inconsistenza di certa dietrologia cervellotica ed esilarante, che scorge improbabili «grandi vecchi» o congiure della Cia o del Kgb dietro ogni battito d’ali. E tuttavia, a volte, Satta si lascia prendere sin troppo la mano, giungendo quasi a una teoria generale degli anni di piombo nella quale ogni ricostruzione è subordinata alla sua ipotesi interpretativa. Il rischio, in questo modo, è di cadere nel libro a tesi, ossia nella deriva che egli stesso rimprovera ai complottisti.

Soltanto così si spiega la sufficienza con cui Satta accoglie le ricerche di Miguel Gotor sulla prigionia di Moro, che hanno viceversa segnato una svolta netta, inducendoci a contemplare gli anni Settanta sotto una luce inaspettata. Gotor, studioso dell’Inquisizione e della censura in età moderna, ha infatti avuto la sensibilità di studiare uomini ancora vivi come fossero morti da secoli e di maneggiare documenti pulsanti come fossero ormai ingialliti dal tempo. La sua «anatomia del potere italiano» non ha nulla a che vedere con il complottismo di giornata. Testimonia, piuttosto, quanto ha scritto un altro studioso, Carlo Fumian, ovvero che «la storia della violenza politica degli anni Settanta non appare comprensibile guardando unicamente alle sue dinamiche interne». Endogeno sin che si vuole, il terrorismo italiano «è stato unico in Europa» per lunghezza, «forza destabilizzante» e «coinvolgimento di larghe fasce sociali». Difficile pensare che qualche «intruso» non vi abbia mai ficcato il naso.

Del resto, almeno in una circostanza, lo stesso Satta non si accontenta della versione ufficiale. Ci riferiamo all’eccidio della stazione di Bologna (2 agosto 1980). Secondo la giustizia italiana, la matrice è neofascista (tra i condannati all’ergastolo, Francesca Mambro e Giusva Fioravanti). Secondo Satta, invece, la strage non è assimilabile a quelle che avevano costellato la «strategia della tensione» dal 1969 al 1974. Per l’ecatombe di Bologna è infatti più credibile una pista palestinese, dovuta al tradimento, da parte italiana, del cosiddetto «lodo Moro». Il nostro autore firma al riguardo pagine suggestive e ricche di spunti, però congetturali.

Forse, allora, per scandagliare gli anni di piombo non bastano le carte giudiziarie, pur fondamentali, ma occorre uno sguardo storiografico in grado di «immaginare» quelle connessioni e quegli aspetti indicibili che non potranno mai essere fissati su alcun documento ufficiale. È quel che aveva provato a fare lo studioso padovano Angelo Ventura, nei suoi pionieristici studi sul «problema storico» del terrorismo italiano usciti nei primi anni Ottanta, quando il fenomeno non si era ancora esaurito. Severo indagatore delle radici culturali dell’estremismo rosso, Ventura non aveva tuttavia sottovalutato, come invece sembra fare Satta, le forze più retrive e reazionarie della società italiana e la loro contiguità con l’eversione di destra.

La Padova di Ventura, «laboratorio delle strategie e delle pratiche eversive» di ogni colore, è anche uno dei luoghi ricorrenti nella monografia di Alessandro Naccarato sul «Pci contro la lotta armata». Una ricerca d’archivio che restituisce gli infuocati dibattiti di allora e attesta la posizione inflessibile presto assunta dal partito di Enrico Berlinguer contro il terrorismo sorto alla sua sinistra. Un’intransigenza che risulterà decisiva per la vittoria dello Stato, ma che costerà al Pci i consensi del fronte garantista, in cui s’identificava anche Norberto Bobbio (autore, fra l’altro, di studi fondamentali sulla democrazia e il «potere invisibile»).

Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo, Rizzoli, Milano, pagg. 894, € 28
Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974, Laterza, Roma-Bari, pagg. 446, € 28
Alessandro Naccarato, Difendere la democrazia. Il Pci contro la lotta armata, Carocci, Roma, pagg. 330, € 37

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