
Resta tra i misteri insoluti nella storia, recentemente molto riconsiderata, del salvataggio delle opere d’arte negli anni drammatici della Seconda Guerra Mondiale il fatto che nelle accurate operazioni di sgombero di tutto quanto poteva essere rimosso dal Palazzo Reale di Milano (in effetti verrà irrimediabilmente devastato dalle bombe alleate che cercarono invano di colpire la Stazione Centrale) non venne incluso un capolavoro che rendeva così speciale la grande Sala delle Cariatidi. Si trattava dei cosiddetti Fasti di Napoleone, una delle creazioni in assoluto più originali della pittura neoclassica, cioè la serie dei dipinti monocromi che, realizzati da Andrea Appiani tra il 1800 e il 1807, erano appesi alla ringhiera del ballatoio che correva lungo tutto il perimetro del monumentale ambiente, destinato a contenere il pubblico che assisteva alle cerimonie, agli eventi pubblici qui organizzati. In un trascinante svolgimento epico, dove una battaglia si succeddeva all’altra, il pittore aveva voluto rappresentare e celebrare, alternando con la sua straordinaria inventiva il registro narrativo con quello allegorico, le impressionanti imprese del Bonaparte, dalla prima Campagna d’Italia alla spedizione in Egitto, alla seconda Campagna italiana, sino alla conclusione segnata dall’incoronazione, di colui che era stato accolto come il liberatore e il portatore dei messaggi di libertà e democrazia della Rivoluzione, con la corona ferrea di Re d’Italia. Perché questi dipinti, straordinari sia per la loro bellezza che come documento storico, non furono posti in salvo, quando vennero rimossi dalla reggia milanese, ormai diventata un museo pubblico, arredi di assai minor valore, dagli sgabelli ai lampadari? Eppure era un’ operazione non complicata, già effettuata molto tempo prima, quando, dopo la caduta di Napoleone, i Fasti, diventati inopportuni dal punto di vista politico, erano stati rimossi e collocati a Brera dove era possibile ammirarli da vicino. Forse sarebbe stato meglio che vi fossero rimasti per sempre e non venissero ricollocati, dopo l’Unità d’Italia, al loro posto. Evidentemente negli anni quaranta del Novecento la considerazione da parte dei nostri storici dell’arte del Neoclassicismo e di Appiani in particolare non era tale da ritenere che la sua arte andasse salvata.
Sembra insomma che la cattiva sorte si sia accanita a intaccare la memoria di questo straordinario protagonista di uno dei periodi più significativi della storia e della cultura milanesi, l’età napoleonica, quando la città fu la capitale della Repubblica Italiana e poi del Regno d’ Italia, che rappresentarono la prima realizzazione di un’ unità nazionale, anche se sotto il controllo della Francia. Nei bombardamenti di Palazzo Reale insieme ai Fasti andarono perdute le magnifiche volte in cui Appiani, celebrando ancora la gloria di Napoleone, aveva riconfermato il suo primato nella tecnica dell’affresco in cui tutti i suoi contemporanei, da Canova a David a Lawrence, lo considerarono inarrivabile, convinti addirittura che avesse raggiunto il livello di Raffaello e di Correggio. La sua fama sopravvise alla morte e venne addirittura consacrata a Brera dove nel cosiddetto «Gabinetto dell’Appiani» furono collocati affreschi di soggetto mitologico sopravvissuti alla devastazione di Palazzo Sannazaro. Sempre a Brera gli venne dedicato il monumento realizzato da Thorvaldsen nel quale il pittore veniva celebrato attraverso la rappresentazione delle tre Grazie: la bellissima scultura è però oggi mortificata dalla sua attuale collocazione: il bookshop della Pinacoteca.
Qui speriamo di ritrovare l’importante volume di Francesco Leone - frutto di studi durati molti anni - che rende finalmente giustizia al grande e trascurato Appiani. Presente in mostre dedicate al Neoclassicismo e all’ Ottocento, Appiani però non ne ha mai avuto una tutta sua, in quanto quella assolutamente modesta, allestita nel lontanissimo 1969 alla Galleria d’ Arte Moderna, aveva fatto addirittura confusione tra le sue opere e quelle del nipote Andrea Appiani junior, brillante allievo di Hayez.
Il libro di Leone affronta una volta per tutte la difficile ricostruzione della produzione e del vasto catalogo di quello che fu un artista “totale”, impegnato non solo su fronte della pittura a olio e ad affresco, ma anche nella scenografia teatrale, nella creazione di apparati architettonici, scultorei e decorativi per le grandi feste pubbliche, nella progettazione di manufatti come carrozze, altari, mobili, costumi, spade da cerimonia, persino di carte intestate della pubblica amministrazione.
Lo straordinario lavoro si basa sulla revisione della bibliografia precedente e soprattutto dei documenti, tra i quali emergono quelli del cosiddetto «Fondo Reina» conservati presso la Bibliothèque Nationale de France a Parigi, ora trascritti e pubblicati integralmente. Si tratta delle testimonianze raccolte dall’avvocato Francesco Reina, suo amico e già editore delle opere complete di Parini, con l’intenzione di realizzare un’ampia monografia in tre volumi sull’artista rimasta irealizzata. Nel Fondo troviamo materiali a stampa e manoscritti, tra cui notizie biografiche, interviste fatte a chi l’aveva conosciuto, memorie di viaggio, lunghe e preziose descrizioni delle opere (fondamentali quando queste non sono più rintracciabili), documenti sugli incarichi pubbici, i giudizi espressi dai contemporanei, rivelatori resoconti sulla tecnica, i materiali utilizzati e le scelte espressive. Emergono dunque le doti di Appiani, che erano ad esempio la velocità nel lavoro, per cui riuscì a realizzare un mumero di prodigioso di opere. Emerge anche la sua incontentabilità (che lo portava a fare, cancellare e rifare continuamente un dipinto), una sensibilità per cui «finiva talvolta a pingere colle dita, come faceva il Correggio». Troviamo altresì note rivelatrici, come quelle sulle sue eccezionali doti di ritrattista, il cui principale segreto consisteva nell’ingrandire «ritraendo certe forme a mo’ del Correggio».
Questo libro documenta finalmente una produzione vastissima, di cui è rimasto relativamente poco, ma credo che basti e avanzi perché Milano, in occasione del centenario della morte che cadrà il prossimo anno, faccia i conti con il personaggio e gli dedichi una grande mostra.
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