Cultura

Caterina Marcenaro, la zarina di Genova

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GRANDI STORICHE DELL’ARTE

Caterina Marcenaro, la zarina di Genova

Novantasei scalini. Tanti ne deve salire Caterina Marcenaro all’età di 65 anni, con la fidata cameriera Ada al suo fianco, per raggiungere l’appartamento nella mansarda di Palazzo Rosso, dopo che le vengono sottratte le chiavi dell’ascensore. Si chiude con toni desolanti la lunga reggenza della lady di ferro a capo della Direzione Belle Arti del Comune di Genova dall’immediato Dopoguerra fino al 1970, ripercorso nel fitto volume di Raffaella Fontanarossa: La capostipite di sé. Una donna alla guida dei musei. Caterina Marcenaro a Genova 1948-1971.

Nell’estate del ’71 la Marcenaro batte a macchina un intenso «passaggio di consegne», che firma con la sua stilografica blu. Vi elenca puntigliosamente tutto ciò che ha fatto e quel che a suo parere resta da risolvere. Sono giustamente passati alla storia della museologia italiana gli interventi condotti condotti con Franco Albini - Palazzo Rosso, Palazzo Bianco e Museo del Tesoro di San Lorenzo dal ’49 al ’56 -, e il museo d’arte orientale Chiossone firmato da Mario Labò nel ’48 e portato a compimento da Cesare Fera e Luciano Grossi Bianchi solo alla fine della carriera della Marcenaro. Oltre a questo, l’ordinamento di archivi e numerose mostre. E poi «numero 9076 restauri” e “numero 165 acquisti».

Aveva tenuto meticolosamente conto di tutto, forse anche per ribadire il peso e il valore del proprio operato, visto che più volte si era dovuta difendere da feroci polemiche. Per esempio sulle scelte per gli allestimenti dei musei. E poi sul ritrovamento della Giustizia di Giovanni Pisano, parte del monumento per Margherita di Brabante. Vista per caso nel giardino di un palazzo, la “zarina”, così la chiamavano i suoi numerosi nemici, provò a comprarla per poche lire. Il proprietario pensava che quel marmo fosse «un paracarro», come spiegò in squisito dialetto genovese al giovane funzionario della soprintendenza, Piero Torriti, che smascherò la mossa della Marcenaro. Ancora, polemiche sulle attribuzioni troppo generose per una dozzina di Van Dyck e Rubens dei suoi musei, con accuse che finirono ripetutamente sui giornali locali. Una vicenda che persino le sopravvisse, ritornando sulle prime pagine a sette anni di distanza. La stampa la accusa continuamente anche per non voler lasciare l’appartamento di Palazzo Rosso, dove infatti morirà nell’estate del 1976.

Altre sue azioni a dir poco maldestre sono state svelate solo di recente, senza possibilità di appello per lei che non c’era più. Dalle ricerche di Piero Boccardo, attuale direttore di Palazzo Rosso, è risultato evidente che fece eseguire in alcuni ambienti del secondo piano nobile della dimora-museo dei veri e propri “falsi” per la decorazione ad affresco.

Se i nemici furono a Genova per la Marcenaro certamente più numerosi degli amici, tra questi ultimi vi è però Angelo Costa, presidente di Confindustria e soprattutto collezionista e vero amatore di pittura genovese. È con il suo appoggio che la studiosa realizza due tra le mostre più significative del secolo scorso per la città: quella su Luca Cambiaso al Palazzo dell’Accademia nel ’56 e quella sui Pittori genovesi del Seicento e Settecento a Palazzo Bianco nel ’69.

Dai carteggi, molti inediti, consultati attentamente dalla Fontanarossa, emergono poi altri legami di reciproca stima con storici dell’arte e conoscitori di quegli anni: Wilhelm Suida e la figlia Bertina, Bernard Berenson, Adolfo e Lionello Venturi, Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, Giulio Carlo Argan, Wart Arslan e Federico Zeri. Sarà quest’ultimo a redigere il lungo «esame attributivo» con la valutazione della collezione che la donna vorrà lasciare non a Genova, ma alla Cassa di Risparmio di Milano. Cinquantaquattro dipinti dal Cinque al Settecento, 37 sculture dal XIII al XVII secolo e 5 ceramiche. E se nella sua lista comparivano Pontormo, Giorgione, Coreggio, Dürer, Caravaggio, Rubens, Strozzi, Georges de la Tour e Piazzetta, in quella stilata da Zeri scompaiono questi nomi altisonanti, senza che la donna abbia dovuto subire anche quest’ultima delusione. Né sa che il suo lascito non è e non sarà mai in un museo nel centro di Milano come aveva desiderato, bensì diviso tra i locali della Fondazione Cariplo e la sede del Museo Diocesano a Sant’Eustorgio.

La Fontanarossa ha sistemato in ordine cronologico tutto il materiale raccolto con interviste e setacciando oltre 20 archivi pubblici e privati, tracciando una storia puntuale delle vicende storico artistiche che s’intrecciano alla sua vita. In chiusura, tenta di rispondere a una domanda forse scomoda: «Quale è la sua eredità culturale?». La risposta della studiosa entra nel vivo di polemiche che, come quelle passate, sono destinate a proseguire: dal 1992 a oggi assistiamo al «progressivo smantellamento e azzeramento delle proposte museografiche e museologiche firmate da Albini e dalla Marcenaro. È un peccato».

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