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L’Italia del Gastronauta

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VIAGGIO NEL GUSTO

L’Italia del Gastronauta

Giacimenti gastronomici. Il volume  guida il lettore alla scoperta di  tradizioni  e tecniche produttive artigianali
Giacimenti gastronomici. Il volume guida il lettore alla scoperta di tradizioni e tecniche produttive artigianali

Bisogna ammetterlo, il peccato di gola è l’ultimo che ci è rimasto. Il sesso ormai è diventato un imperativo e il porno un irraggiungibile traguardo. Invece la golosità ormai ha occupato pacificamente il palcoscenico. Ormai le tentazioni non riguardano più il sesso, ma il cibo calorico. I dietologi, come i moralisti d’antan, hanno un bell’ammonirci sulle tragiche conseguenze della golosità – cinture adipose, cellulite, pance – la dieta incomincia sempre il giorno seguente.

Ed è sempre più difficile incontrare qualcuno che non si dichiari in dieta, salvo poi gemere ipocritamente quando il cameriere porta insieme all’aperitivo un piatto di patatine. Se sentite qualcuno nella stanza vicina accusare qualcun altro di essere un tentatore, sappiate che sicuramente non si tratta di sesso ma di Sacher.

Che sia o no un risultato degli incessanti appelli sulla fame nel mondo, l’Occidente ha sempre l’acquolina in bocca. Gli utopisti sognano lo zabaione acalorico, i realisti, come Davide Paolini, cercano il meglio. Gastronauta per vocazione, dal titolo della trasmissione in onda su Radio 24, Paolini perlustra l’Italia e le cucine degli italiani alla ricerca dei più squisiti ingredienti di questo peccato poco originale, ma irrinunciabile.

«È un grave errore, ammonisce profeticamente, contrapporre artigianato e industria: sono due mondi completamente diversi, entrambi necessari per soddisfare il consumatore». Infatti il vero goloso pur sapendo apprezzare meglio di ogni altro il prodotto di nicchia, non per questo sa resistere alla sua copia massificata o avvilita dalla permanenza in frigo. Ed è proprio questo a rendere ancora più importante la succulenta operazione di Paolini: portare alla luce cinquanta appetitose eccellenze e i loro cinquanta virtuosi produttori.

Meno male che è stato «sfatato il falso mito che la frutta secca faccia ingrassare», perché così si potrà tornare ad assaggiare i pistacchi di Bronte, raccolti ogni due anni proprio lì dove nel risorgimento Nino Bixio represse duramente una rivolta contadina.

D’Annunzio usava le alici per insaporire la ghiotta «fretada rognosa», la sua frittata preferita. Colette ne faceva una salsa per insaporire la zuppa di pesce. Ma le migliori abitano nel ristorante Acquapazza di Cetara, sulla Costiera Amalfitana, dove la rinomata colatura di alici si ottiene forando i barili che le ospitano e filtrandone il succo in appositi cappucci di tela.

«Grazie per quella salata e rossa compattezza porcina, che senza pudore tu chiami Culatello» scriveva D’Annunzio al gioielliere Renato Brozzi, che glielo mandava da Parma. Molti anni dopo Evelyn Waugh avrebbe fatto colazione, a Parma, col culatello innaffiato dal lambrusco. L’Antica Ardenga a un soffice culatello aggiunge la meno nota, ma altrettanto meritoria culatta.

Da sempre i moralisti ci ammoniscono che siamo solo polvere e che polvere ritorneremo. È innegabile, ma è altrettanto innegabile che niente è più ineffabile del polveroso cioccolato di Modica, che si sfarina in bocca. «Un cioccolato fondente di due tipi – alla vaniglia, alla cannella – da mangiare in tocchi o da sciogliere in tazza: di inarrivabile sapore, sicché a chi lo gusta sembra di essere arrivato all’archetipo, all’assoluto, e che il cioccolato altrove prodotto ne sia l’adulterazione, la corruzione...», celebra Leonardo Sciascia.

«Compiango profondamente quegli sventurati che se ne stanno nei ristoranti a venti lire della Galleria Vittorio Emanuele, e non conoscono il sapore della pasta al sugo a una lira a porzione», sospirava l’ascetica Simone Weil. La pasta degli anni Trenta doveva assomigliare a quella rustica e sublime che Giacomo Santoleri produce in un’azienda alle falde della Majella abruzzese.

«Ogni cosa veniva paragonata a un’altra, le carni abbronzate dal sole ai biscotti appena appena sfornati», nota Vitaliano Brancati, ma quelli della Biscotteria Bettina non hanno paragoni perchè sanno dolcemente di mais, uvetta, curry, caramello o cannella.

Secondo un grande diarista inglese del Seicento, Samuel Pepys, il parmigiano è il miglior formaggio del mondo. «Sotto Luigi XIII, Parigi esigeva il parmigiano», ricorda Colette, devota ai latticini. E quello del caseificio Gennari «è fatto con amore, con passione» da una famiglia che, a partire dalla mungitura delle mucche, segue ogni tappa della creazione di questo oro friabile.

Gide aveva notato che il Giovanni Battista di Michelangelo teneva nella mano sinistra una focaccia di miele. D’Annunzio esigeva dalla cuoca una rinomata focaccia. A noi è riservata quella della Pasticceria Tabiano, disponibile nei più svariati gusti, da Grand Marnier al mango fino ai cereali antichi in due tipologie: croccante o morbida.

Apparentemente l’amore per i tartufi era l’unica cosa che accomunasse due geni come Proust e Joyce. Lord Byron, sensibile all’aroma del tartufo, ne teneva sempre uno sulla scrivania. Paolini ci fa scegliere tra quelli di Stefania Calugi e quelli di Inaudi.

La golosità, constata Maupassant, ha mille vantaggi sull’amore. Ma il più importante è che, mentre per abbandonarsi all’amore bisogna essere in due, la golosità la si può praticare da soli, anche se l’abate Morellet ha detto: «Per mangiare un tacchino al tartufo bisogna essere in due: il tacchino e se stessi».

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