Cultura

La dama col Canzoniere

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pittura e letteratura

La dama col Canzoniere

A Firenze. «Dama col Petrarchino», Andrea  del Sarto,  1528   circa,  Uffizi
A Firenze. «Dama col Petrarchino», Andrea del Sarto, 1528 circa, Uffizi

Sul rapporto tra testi e immagini (e testi-fatti-immagine) nella letteratura e nella storia dell’arte italiane si sono scritte pagine su pagine, non tutte memorabili. Anche per questo, quando esce qualcosa di solido su un tema così logoro, val la pena di segnalarlo. È questo il caso di un articolo che lo storico della lingua italiana Giuseppe Patota ha pubblicato sul numero in uscita del «Bollettino di italianistica» della Sapienza. Titolo: Petrarchino.

Partiamo dal già noto: come tutti sanno, molti ritratti italiani del Rinascimento, maschili e femminili, rappresentano personaggi che tengono tra le mani un piccolo libro. In vari casi irriconoscibile perché privo di elementi testuali individuabili, tale libro è talora esplicitamente contrassegnato da rinvii a Petrarca e al suo Canzoniere. Si va dall’indicazione del nome dell’autore sulla costola alla citazione di versi petrarcheschi, talora isolati o scompagnati, tra le pagine aperte o socchiuse di quelli che per tale ragione vengono spesso chiamati Petrarchini. Questa parola fu inventata con tutta probabilità da Pietro Bembo, e da lui usata per la prima volta in una lettera a Bernardo Bibbiena del 16 dicembre 1507.

Ora, il Petrarchino cui si riferisce Bembo è naturalmente un testo a stampa, cioè un esemplare dell’edizione che lo stesso cardinale aveva concepito e curato per i tipi dell’editore veneziano Aldo Manuzio. La prima tiratura era uscita nel 1501, e a essa ne erano seguite altre, immediatamente rincorse da vari tentativi d’imitazione, più o meno riusciti.

Per un facile slittamento concettuale, l’idea che il libro tenuto in mano da dame e gentiluomini dell’arte italiana del Cinquecento sia un Petrarchino nel senso di un’edizione a stampa di Petrarca si è silenziosamente ma largamente diffusa tra i critici d’arte e tra gli storici della letteratura : Patota ne dà una piccola antologia, che include anche un’autocitazione (e autocorrezione) ammirevole per onestà.

In realtà, quasi mai le innovazioni tecnologiche sostituiscono immediatamente e completamente il passato. Ma spesso lo mascherano, facendolo dimenticare in modo fin troppo brusco.

Come lo stesso Patota dimostra, buona parte dei libri raffigurati nei ritratti e riconducibili a Petrarca sono in realtà piccoli codici manoscritti, cioè rappresentanti di una categoria di libri scritti a penna diffusasi in Italia alla fine del Quattrocento – quindi prima che la stampa si appropriasse di quel modello, trasformandolo in un best seller. Tale è il caso, ad esempio, del Ritratto di donna con spartito di musica e Petrarchino (Barbara Fiorentina?) di Domenico Puligo (1525), o del famosissimo Ritratto di Laura Battiferri del Bronzino (1560). Come scrive Patota per quest’ultimo, « che non si tratti di un testo a stampa ma manoscritto è confermato proprio dalla sequenza dei due sonetti, 64 e 240, che nel Canzoniere non sono contigui e che sono stati intenzionalmente scelti e trascritti dall’artista in quest’ordine per lanciare un messaggio ».

Diverso il caso più interessante illustrato da Patota: quello della Dama col Petrarchino di Andrea del Sarto (oggi agli Uffizi), per la quale egli dimostra con precisione vertiginosa che il testo raffigurato corrisponde esattamente e indubitabilmente al contenuto di una singola pagina di una ben precisa stampa del Canzoniere, quella pubblicata dagli eredi di Filippo di Giunta a Firenze nel 1522, unica edizione cinquecentesca in cui una pagina è occupata, come quella che compare nel quadro, dai soli sonetti 153 e 154 dei Rerum vulgarium fragmenta.

L’istruttoria dello storico della lingua si fa qui incalzante, fino al punto di accertare che rispetto a quell’edizione, il testo presente nel quadro manca solo di un apostrofo (al v. 14 del primo sonetto), di sette virgole (2, 3, 7, 11, 13 del primo e 3 del secondo) e un punto (ultimo verso del primo). Altra differenza consiste nella numerazione e nella posizione della pagina: 68 recto (cioè a destra) anziché 67 verso (cioè a sinistra). Per questo importante dettaglio, Patota offre varie possibili spiegazioni: ad esempio, che il dito della dama indichi proprio il verso della pagina sulla quale i due sonetti avrebbero dovuto trovarsi, ma che era impossibile rappresentare al loro posto senza modificare del tutto la sua posa.

Quel che è certo è che – per la prima volta in un caso simile – il libro rappresentato da un pittore viene sottratto alla genericità di un’indicazione approssimativa e all’ipotesi di una riproduzione fantasiosa e distorta, e ricondotta con precisione quasi millimetrica alla rappresentazione di un oggetto reale, tipograficamente definito.

Se si considera che le edizioni circolanti cui Andrea del Sarto avrebbe potuto rivolgersi erano una quindicina, la ricostruzione di per sé non era troppo difficile, posto che venisse in mente di compierla; ma di fatto non era mai stata tentata.

Più facile, e quasi automatico, affidarsi da un lato al luogo comune del libro a stampa vittorioso nell’arte come nelle botteghe dei librai (col che si finisce d’ignorare che ancora nel Cinquecento il vecchio Petrarchino, inventato dai copisti di manoscritti prima che dai tipografi, continuava ad avere cittadinanza culturale e diffusione), e da un altro assumere che un libro a stampa, dopo tutto, vale l’altro. E quindi è inutile chiedersi se l’artista avesse davanti, e stesse ritraendo con complessiva fedeltà, una ben precisa pagina di un volume individuato.

Andrea del Sarto, tuttavia, non è un pittore iperrealista, e perciò si distacca dal suo modello nel momento in cui al libro appoggiato sulle ginocchia dell’anonima dama dà una forma allungata che non corrisponde a quella del volume a stampa da cui sta copiando : un « oggetto ibrido », lo chiama Patota, « che riproduceva l’aspetto di un manoscritto nelle caratteristiche grafiche e materiali e nel formato oblungo, ma riprendeva meticolosamente un testo a stampa nella pagina». Una specie di entità di passaggio, che dall’era dei manoscritti – rappresentati per secoli dall’arte figurativa, e ben più familiari ai pittori rispetto ai libri a stampa – sembra transitare dolcemente verso un nuovo tipo di oggetto, il volume stampato, per il quale né Andrea, né altri avevano ancora trovato il conveniente linguaggio figurativo.

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