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La mano intatta dell’étoile

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anthony marra

La mano intatta dell’étoile

Un quadro al centro di tante storie, un quadro un po’ anonimo, che rappresenta un ridente prato, situato in una zona sperduta nella Cecenia del XIX secolo. L’autore è Pyotr Zacharov, un pittore russo di origine cecena, una gloria locale il cui patrimonio artistico è andato un po’ disperso, e la sua opera si intitola Pascolo deserto nel pomeriggio. Ecco il fil rouge che connette fra di loro nove racconti nell’arco di tempo di quasi ottant’anni, e che attraversa la crescita e il declino del Comunismo in Unione Sovietica, affacciandosi, negli anni della trasformazione in Repubblica Russa, sulla Glasnost gorbacioviana sino al trionfo oligarchico di Putin. Queste storie raccontano vicende umane di personaggi animati da grandi illusioni che mettono in atto tentativi, spesso velleitari, di resistenza alla macina del destino.

Così è sintetizzabile la struttura, fatta di carne smembrata e di costrutti ideali in cui la speranza alberga come un moscerino in una grande tela di ragno (l’indecifrabile labirinto della Storia), dell’ultimo romanzo di Anthony Marra intitolato La confessione di Roman Markin. Marra è nato a Washington nel 1984, ma ha trascorso anni di studio nei paesi dell’Est. La sua opera precedente, La fragile costellazione della vita (Piemme 2014), ha avuto molto successo, e narra della guerra russo-cecena vista da un ospedale simile ad un’isola circondata da una marea di sangue. Ma nella Confessione di Roman Markin, pur essendo lo scenario in parte simile, Marra mette in atto una narrazione diacronica, capace di disegnare un intero albero genealogico denso di misteri e di rinunce, capace di spiegare il passato attraverso il presente e viceversa, in un gioco di volti che appaiono e poi scompaiono, a seconda dei condizionamenti politici e sentimentali dei personaggi.

A dare il titolo al libro (almeno nell’edizione italiana) è l’asse centrale di questa raccolta di racconti così unitaria da figurare come un romanzo: la storia di Roman Markin che, nell’Unione Sovietica di Stalin, svolge un mestiere occulto e terribile nel suo ufficio di Leningrado. Roman, infatti, ha la facoltà di cancellare dalla Storia (e dalla vita) persone invise al Comunismo. Egli lavora, al colmo delle purghe staliniane, in uno speciale Dipartimento che si occupa di sottrarre, con l’uso sapiente di un aerografo sulle matrici fotografiche, il diritto all’esistenza di personaggi invisi al Regime. In questo modo acquisisce le stesse prerogative d’una divinità che può decretare la non-esistenza di chiunque. Ma questa funzione “suprema” non soddisfa Roman, che per spirito di rivalsa sostituisce spesso i volti condannati con un volto “innocuo”, quello di suo fratello Vas’ka: un uomo libero, giustiziato dal Regime per “radicalismo religioso”, che torna a vivere, ironia della sorte, proprio nei contesti più fastosi della Nomenclatura. Inoltre, il nostro artista agisce anche su alcuni quadri del realismo socialista, piazzando l’amato Vas’ka persino in una tela ufficiale che verrà collocata nell’alloggio di Stalin. E arriva addirittura ad inserire la sagoma di un gerarca di Groznyi, in un altro quadro — il Pascolo deserto nel pomeriggio per l’appunto— che gli era stato inviato dal Partito comunista ceceno per ottenere una sorta di immortalità nell’arte.

Mentre Roman compie queste alterazioni della Storia, si imbatte nell’immagine d’una ballerina classica polacca giustiziata come spia e la cancella, come fa abitualmente, ma le lascia in vista solo una mano («lascerò la mano della ballerina lì, dov’è giusto che sia, una mano che si agita per invocare soccorso, per dire addio, senza applaudire nessuno»). Un segno di sfida quasi infinitesimale, che stranamente non passerà inosservato alla censura e lo porterà davanti al plotone di esecuzione come complice della supposta congiura polacca. Ma questo non è che l’inizio della Confessione: da quel gesto estremo discenderà a cascata un effluvio di micro-narrazioni, che danno voce a molti personaggi, tra cui Galina, la nipote di quella ballerina (che era, come si apprende dopo, un’ètoile del teatro Kirov di Leningrado, ora Mariinskij). Galina è alla ricerca della vocazione per la danza sulle orme della nonna, ed è protagonista di una serie di flash back in cui rivivono i suoi genitori, morti per aver vissuto accanto ad una micidiale miniera di nickel — produttrice di tumori di massa — situata a Kirovsk in Siberia.

Proprio attraverso la mediazione di un altro personaggio-chiave del romanzo, Kolja, compagno di scuola di Galina, ci trasferiamo a questo punto in Cecenia agli inizi del 2000 nel bel mezzo della Guerra d’indipendenza, e vediamo riannodati altri parenti o amici in ulteriori storie parallele. Tutte queste figure culmineranno con Ruslan (e siamo ormai nel 2013), un appassionato d’arte che apre un museo regionale nella Groznyi ricostruita dopo il sanguinoso conflitto. Proprio nelle mani di Ruslan passa Pascolo deserto nel pomeriggio di Zacharov, che finirà in mostra in una galleria di San Pietroburgo. E intorno a questo quadro le nuove generazioni riusciranno a ricostruire tutta la storia della famiglia.

Infine, dunque, si compirà il rito del riconoscimento del passato: si saprà chi ha denunciato, ottant’anni prima, il povero Roman e riemergerà, taumaturgica, quella mano intatta della ballerina. Un gesto di libertà preservato nel tempo e nella memoria. Una piccola esile mano che ha saputo “fermare” la Storia.

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