L’ultima sberla, a distanza di poche ore, l’hanno presa in Gran Bretagna e in Spagna, dove non avevano previsto la vittoria di Brexit e la sconfitta di Unidos Podemos. Ancora una volta, i sondaggisti si leccano le ferite, facendo i conti con una tendenza che, questa sì, diventa sempre più frequente, ossia il fallimento clamoroso delle previsioni elettorali (ma in Gran Bretagna hanno sbagliato anche i bookmaker, tradizionalmente considerati infallibili).
Interessante perciò è leggere le ragioni di uno dei protagonisti italiani della scienza demoscopica, Renato Mannheimer, che ci tiene a sottolineare, nel dialogo iniziale con Vera Minazzi, come i sondaggi politici ed elettorali, in realtà, rappresentino una quota esigua del business totale, fatto di rilevazioni per le aziende che, al contrario, raggiungono ormai livelli di affidabilità molto alti. Molti sondaggi elettorali, ammette l’autore, sono fatti più per conquistare un titolo sui giornali, e dunque notorietà, che non per soddisfare una vera e propria commessa (e dunque anche i media dovrebbero maneggiare con più cura numeri e tendenze di dubbia scientificità). Ma da dove nasce la differenza di attendibilità tra le rilevazioni di natura politica e quelle aziendali? Secondo Mannheimer, dalla accentuata volatilità degli elettori che, a differenza di qualche anno fa, non si riconoscono più in alcun partito, e decidono all’ultimo minuto (quando vanno a votare, potremmo aggiungere), lasciando le previsioni nell’incertezza e nell’ambiguità. Molto si può aggiungere sulle questioni di metodo e sulla qualità di molti sondaggi, spesso raffazzonati e grossolani: ma resta il fatto che il sondaggio misura ormai un prodotto, la politica, sulla quale il giudizio dell’elettore, sotto tutte le latitudini, è spesso impietoso e foriero di decisioni che nulla hanno a che fare col tradizionale legame con un partito, un’idea o un’ideologia. Da questo punto di vista, è significativo che nel giro di trent’anni sia raddoppiata al 50% la quota di elettori che non sanno, o non vogliono, collocarsi sull’asse destra-sinistra, a conferma di quanto si siano fatte labili le appartenenze politiche. L’evanescenza dei sondaggi elettorali, dunque, diventa sintomo di uno scollamento con la politica (e con le istituzioni) che spesso raggiunge punte particolarmente elevate, come avviene nel nostro Paese (che continua a fidarsi soprattutto di Carabinieri e Polizia): sui mezzi di informazione e nelle serate televisive la politica dilaga, ma nella popolazione le passioni di un tempo si sono spente. Oggi, dice Mannheimer, le persone «abbastanza» interessate alla politica sono solo il 20%, una percentuale a prima vista non indifferente, per quanto il loro comportamento si sostanzi poi in un’attenzione sporadica e occasionale. Ma il resto degli italiani di politica non vuol sentir parlare, e si guarda bene (anche se poi dai sondaggi elettorali è abbastanza incuriosito) dall’approfittare della dovizia di informazioni che media vecchi e nuovi gli riversano addosso. Quella che è “scoppiata”, insomma, non è tanto la scienza dei sondaggi, ma la fiducia nella politica: e questo dovrebbe preoccupare tutti. A partire dai tanti politici che, viceversa, si illudono di riconquistare i favori perduti non proponendo politiche, e dunque visioni e progetti, ma inseguendo rilevazioni spesso di dubbia validità metodologica e inesistente rilevanza sociologica. E qui Mannheimer spezza una lancia a favore di un utilizzo più esteso da parte delle amministrazioni pubbliche di sondaggi (seri) sulle questioni che interessano i cittadini; benché la sua stessa impressione sia che i sindaci, quando vi ricorrono, siano più interessati a misurare il proprio grado di popolarità che non a cogliere l’orientamento dei cittadini su questa o quella soluzione da adottare.
Riflettere sui sondaggi, dunque, significa riflettere su noi stessi e sul nostro rapporto con la politica, ossia sul modo in cui ci collochiamo nella società di cui siamo protagonisti. Il libro di Mannheimer non è (solo) un saggio sulla politica e sui tentativi per prevederne gli sviluppi; esso ci offre infatti una serie di capitoli (e di grafici, chiari ed eloquenti) su alcune delle questioni più attuali. E assume dunque il carattere di una impietosa autoanalisi nazionale: ne emerge un’Italia spaccata in vari spezzoni (geografici, sociali, anagrafici); molto sensibile al proprio “particulare” (esemplare, a suo modo, è l’ostilità radicale alle grandi opere pubbliche se realizzate sotto casa); più preoccupata dal terrorismo che non dalla crisi economica; relativamente indifferente al tema della produttività; molto meno europeista (siamo passati da un consenso al 70% nel 1994 al 27% di oggi); sempre più slegata da qualunque vincolo di appartenenza; insofferente verso lo Stato esattore ma tollerante verso quello erogatore (di servizi pubblici gratuiti): ottimo materiale per impegnarsi a costruire un’opinione pubblica più avvertita e meno isterica.
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