Cultura

La polvere sopra Twyla Tharp

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DANZA

La polvere sopra Twyla Tharp

Appesantito. «Country Dances»
Appesantito. «Country Dances»

Una leggera coltre di polvere si è posata sulla Twyla Tharp Dance e sulle sue prodezze; non ce l’aspettavamo. Per di più la cancellazione di una delle tre recite italiane in programma, quella romana, lasciava supporre una sorta di dimenticanza o di non conoscenza della coreografa americana in questione. Troppo rare le sue calate oltre Oceano per questa artista ancora glamour e corteggiatissima ma soprattutto nel suo Paese; troppo lontani i suoi exploit anni Ottanta con le sensuali Nine Sinatra Songs e il leggendario The Catherine Wheel. Infine citati, ma finiti nel dimenticatoio i pur importanti film di Milos Forman (Hair, Amadeus, Ragtime) cui lei mise mano.

Eppure “Ravenna Festival” e prima ancora il “Florence Dance Festival” non hanno sbagliato: nel programmare questo evento newyorkese ci hanno aiutato a comprendere quali siano, ormai, le aeree di minor interesse per il pubblico giovane, avveduto, ma anche senza aggettivi. A Ravenna la compagnia della Tharp è stata accolta da applausi senza estasi e da generosi quanto cauti richiami. Apriva le danze, al Pala de André, Country Dances (1976) un pezzo sinuoso, in costumi sgargianti, con un via vai di citazioni “Old America”, di motteggi e di pur abile square dance: appropriati, i quattro danzatori si fronteggiano per frantumarsi in duetti e terzetti. Belli gli stop, magari dopo un guizzo del corpo da serpente, e gli “a capo”, tipici della Tharp. Ma il pezzo è nell’insieme per palati yankee: bastava che la coreografa si rituffasse, invece, nel ritmico e maschile The Fugue (1971) per ricordarci l’importante momento del suo passaggio dall’iniziale appartenenza all’ultima aerea sperimentale della danza americana, - il Post-Modern della Judson Church - alla coreografia più tradizionale ma ancora severa e impegnata. Poi da Country Dances si scappa via verso un balletto accademico senza scarpette da punta, sia in Brahms Paganini, sia nella novità Beethoven Opus 130, pièce in cui si mette in mostra, tra danzatori anche maturi, un lungo e aitante corpo maschile in costume nero, come quello dei colleghi. Opus 130, di certo qui il più completo ed elaborato dei pezzi Tharp, lascia soprattutto intravedere quella capacità di creare nello spazio diversi punti d’attenzione in un incrollabile edificio di passi accademici, prese, duetti, scivolate maschili in diagonale e con un alternarsi felice, sulla musica, di lentezza e nevrosi e una certa libertà nel disfarsi degli indumenti sul torso e di rimetterli addosso, come nel balletto accademico non si usa di certo fare.

Tharp ha un grande mestiere e anche genialità ma ora vanta danzatori forse al di sotto della sua nomea. L’interprete in bianco di Brahms Paganini è una scheggia: piroetta senza difficoltà ma è privo di charme; i compagni che lo assecondano nella seconda parte della coreografia hanno corpi troppo maturi, e vari. Con le loro magliette colorate concludono in allegria, dopo l’esibizione plateale di una tiratissima danzatrice ancora in bianco, un fetta di “storia Tharp”(del 1980) entrata nel repertorio di molte compagnie per quel suo scaltro dialogo tra esitazione brevissima, come un fermo immagine, e scatto, per quella ebrezza dinamica mista a un non fare o a un fare quotidiano, retaggio antico del Post Modern. Infine, l’esibizione della Twyla Tharp Dance conferma che scomparsi i grandi maestri, l’America pare a corto di creatori davvero contemporanei, e quelli consolidati strizzano l’occhio al pubblico affinando il linguaggio in cui sono rodati e da tempo in auge. Ricerca e imprevisti? Per ora latitanti o banditi.

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