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Manzoni? Meglio cancellarlo

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Arte

Manzoni? Meglio cancellarlo

Emilio Isgrò. «L’occhio di Alessandro Manzoni» (2016), opera inedita esposta alle Gallerie d’Italia
Emilio Isgrò. «L’occhio di Alessandro Manzoni» (2016), opera inedita esposta alle Gallerie d’Italia

«Oggi, 6 febbraio 1971, dichiaro di non essere Emilio Isgrò» afferma perentoriamente uno dei sette elementi dell’installazione (quasi) omonima, di quell’anno. Affermazione smentita pochi metri più in là dal grande lavoro del 2008 nel quale, fra mille cancellature, sopravvivono solo cinque parole, Dichiaro di essere Emilio Isgrò: due opere, queste, che il curatore Marco Bazzini ha voluto porre in apertura della grande mostra di Palazzo Reale, poiché condensano in sé i principi fondanti della ricerca dell’artista. In esse ci s’imbatte infatti nel congegno concettuale dell’asserzione e della sua sconfessione; nell’adozione di un tempo “circolare”, caro a chi, come Isgrò, ama tornare sul passato, personale e collettivo, non per rivisitarlo ma per reinventarlo con la sua indole lucidamente provocatoria, sempre in fuga dai luoghi comuni; nell’ironia pungente che accompagna i suoi enunciati, antidoto a ogni rischio di sentenziosità. Ma, soprattutto, ci si confronta con la riflessione -centrale nell’arte del secondo ’900- su identità e autorialità, che nella “scandalosa” installazione Il Cristo cancellatore, 1968 (38 volumi fittamente cancellati, chiosati dal commento finale: «Queste pagine sono state cancellate da Gesù Cristo») trova una delle sue manifestazioni più felici e persuasive.

Una mostra-costellazione, in realtà, questa di Isgrò, perché a Palazzo Reale si aggiungono le Gallerie d’Italia, nel cui caveau vigila l’Occhio di Alessandro Manzoni, inedita “cancellatura” del celebre ritratto manzoniano di Francesco Hayez, e la contigua Casa del Manzoni, con i 35 volumi cancellati (uno posto sul suo scrittoio, nello studio) del nuovissimo intervento dell’artista sui Promessi Sposi, a quasi cinquant’anni dalla prima “cancellatura” del nostro romanzo identitario, I Promessi Sposinon erano due, 1967: il primo di una serie di lavori su altri monumenti della nostra cultura in apparenza intoccabili (ma non per lui), dall’Enciclopedia Treccani alla Bibbia, dall’Inno di Mameli alla Costituzione italiana (ai quali s’aggiunge la cancellatura dell’Enciclopedia Britannica, 1969, celebrata nell’ultima Art Basel).

Ordinata secondo un andamento tematico, la mostra di Palazzo Reale accompagna il visitatore alla scoperta dell’arte, tutt’altro che “facile”, ma anzi stratificata di significati etici, civili, politici –umani, in una parola- di Emilio Isgrò «il cancellatore».

Giornalista, romanziere, poeta, drammaturgo e infine artista visivo di vasta e profonda cultura, sperimentatore incontentabile, Isgrò inizia da poeta. Ma dal 1960, a Venezia, dove è responsabile della cultura al «Gazzettino», sempre più assediato dalle parole, prende a riflettere (lo dichiara in catalogo a Luca Massimo Barbero) «sulla capacità della parola umana di resistere alla nascente società industriale». E mentre si dedica, da pioniere-fondatore, alla poesia visiva, diventando ben presto il bersaglio di attacchi da parte di più d’un artista concettuale, avvia la sua specialissima ed eversiva indagine “cancellatoria” su parole e immagini.

Eversiva non solo perché, elidendoli, finisce per conferire nuova vitalità ai segni risparmiati, verbali o iconici che siano, ma perché nel farlo dedica la massima attenzione ai valori formali dei suoi lavori (aspetto, questo, trascurato dai più, a quel tempo), e perché coinvolge il pubblico in un rapporto vivo con l’opera, eludendo le trappole dei “monologhi” praticati da tanti artisti di quella stagione.

Ma ciò che più sorprende percorrendo le sale, è la varietà sempre rinnovata dello strumento, visivo e concettuale a un tempo, della “cancellatura”: nello straordinario Jacqueline (indicata dalla freccia) si china sul marito morente, 1965, la cancellatura è realizzata dalla retinatura, che elide e smaterializza l’immagine, ponendosi, programmaticamente, agli antipodi rispetto alle Jackie pop di Warhol. Nelle “lettere estratte” essa è frutto della sproporzione tra la presenza minima del segno, galleggiante nel vuoto, e la monumentalità dell’opera da cui ognuna proviene (La “q” di Hegel, sarebbe tratta –confida l’autore, ammiccando- dall’Estetica del filosofo tedesco). Nei “particolari ingranditi” essa scaturisce da un ingrandimento tanto forte da far perdere di vista l’immagine originaria, così come accade con il minuscolo Seme d’arancia che, enormemente ingigantito nell’omonima scultura (uno dei simboli di Expo) diventa qualcosa d’inconoscibile), mentre nelle Storie rosse (o gialle), di cui solo i titoli, come fossero didascalie di un quotidiano, comunicano i soggetti (Gramsci, Lin Piano, Mao, Lenin, Trotskij…) si assiste a un mimetismo assoluto, in cui è il colore a negare (e annegare in sé) l’immagine.

Anche la pittura, cui approda negli anni ’80, è “cancellata”, attraverso il procedimento della sottrazione: colore aggiunto a colore, ma una scialbatura di gran parte delle immagini, per attivare l’attenzione su quelle risparmiate. Accade nell’indimenticabile Ora italiana, nella Veglia di Bach, nel Guglielmo Tell, sala personale alla Biennale di Venezia del 1993: la prima occasione, questa, in cui i libri, da supporto che erano per le cancellature, si fanno essi stessi scultura, e nell’emozionante ciclo dei “censurati” (Pico, Galileo, Savonarola, Malaparte, Testori): cancellati, loro, dalla storia. Fino alle cancellature ottenute attraverso il brulichio operoso, “sociale” e simbolico, delle api e delle formiche, che si affollano nelle opere “mediterranee”: il suo omaggio a un mare che è stato matrice della nostra cultura comune e via plurimillenaria di scambio tra le genti, oggi diventato lo scenario di una tragedia atroce.

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