
Tra gli arredi della basilica di San Marco a Venezia il ciborio è il più visibile e inosservato. Sfilando davanti alla Pala d’Oro, il pubblico gli passa accanto senza che gli sguardi si soffermino su quella sorta di baldacchino con la volta a crociera, che racchiude l’altare maggiore con la Pala d’Oro ed è sostenuto da quattro colonne di marmo completamente rivestite di sculture. Nella fascia superiore è adorno di meravigliose lastre di marmo verde di Tessaglia, selezionate tra chi sa quante per la presenza di sfumature iridescenti di azzurro. Ancor meno gli sguardi si volgono verso il fastigio, dove sono seduti i quattro Evangelisti a tutto tondo e il Salvatore risorto, opera rinascimentale di Antonio Lombardo. Nel sarcofago, incastonato entro l’altare, furono ritrovate reliquie del santo titolare e una preziosa pergamena, il cui testo resterà per sempre ignoto, poiché il foglio, dato in consegna agli inizi dell’Ottocento al patriarca Gamboni, venne immerso in un catino di acqua calda, «sì che perdé affatto ogni scritto». Il sarcofago era stato collocato nel 1094 nella cripta dal doge Vitale Falier e vi rimase per secoli, sino al ripristino dell’area del presbiterio avvenuto in età napoleonica.
La storia del ciborio comincia nel Duecento, dopo il terremoto che devastò la città. In seguito non subì vistosi mutamenti e oggi appare nelle sue stupende linee classicheggianti. Al ciborio è dedicato l’ultimo numero monografico dei Quaderni della Procuratoria, nel decennale della rivista (Marsilio editore), che riporta al centro dell’attenzione questo straordinario arredo monumentale. Corredato di saggi di vari autori (Favaretto, Vio, Da Villa Urbani, Fumo e altri), il quaderno è introdotto da uno studio di Thomas Weigel che si concentra sugli enigmi delle sculture delle quattro colonne bizantine, variamente datate nel VI o nel XIII secolo e provenienti dalla spoliazione di Costantinopoli del 1204. Sono suddivise in sezioni, ognuna ripartita in nove nicchie dove le innumerevoli figure allestiscono un’affollata sequenza di storie di Maria e di Gesù. Secondo Weigel i rilievi sono di mano di due autori, come dimostra il dislivello qualitativo, tuttavia risaltano particolari comuni, per esempio le vesti e i manti alla romana. Viste a una certa distanza le figure producono l’effetto di una folla brulicante, accresciuto dalla miriade di dettagli. A favore dell’ipotesi di una datazione “alta”, vale a dire al VI secolo, secondo Weigel interviene l’episodio della Crocifissione, dove, sulla croce, in mezzo ai malfattori, non compare Cristo bensì il simbolo dell’agnello, diffuso in Oriente prima del concilio di Trullo (692) e poi sostituito dal corpo esanime, ma – a quanto ne so – non definitivamente né ovunque. Sul piano dello stile, emergono evidenti caratteri tardo antichi, come i tratti fisionomici troppo marcati e le forme tozze; i profili mossi hanno una parvenza goticheggiante che potrebbe giustificare il dubbio di una esecuzione duecentesca e lasciare aperto il caso.
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