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Quanto è Carmen Antonacci

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TORINO

Quanto è Carmen Antonacci

Sobrio. Dmytro Popov (Don José) e Vito Priante (Escamillo) in «Carmen»  di George Bizet. Foto Ramella&Giannesi
Sobrio. Dmytro Popov (Don José) e Vito Priante (Escamillo) in «Carmen» di George Bizet. Foto Ramella&Giannesi

Non fanno notizia, ma in Italia esistono anche teatri che funzionano. Prendiamo ad esempio il Regio di Torino, col suo importante zoccolo di abbonati, una stagione ricca e varia (anche la prossima, dieci titoli, perfettamente calibrati) e una macchina produttiva oliata. Sabaudamente sobria, cioè non bisognosa di strombazzamenti esterni. Carmen di Bizet è il titolo che sta chiudendo il cartellone: dieci repliche, sala piena, prezzi civili. Protagonista la gran dama della scena, Anna Caterina Antonacci. Su di lei tutto fa perno. E il suo carisma contagia l’intero cast e lo spettacolo essenziale, non stravolgente. Viene da Zurigo e lo firma Matthias Hartmann, regista tedesco cinquantenne, che sa muovere con efficacia la scena d’opera.

Senza di lei, questa Carmen non varrebbe il viaggio. E le tante Carmencite in circolazione sbiancano, accanto alla sua. Perché la Antonacci, da sempre voce discussa sui palcoscenici d’opera – vuoi per l’irregolarità, vuoi per il volume – col tempo si conferma come una delle più grandi artiste. Tra le poche capaci di rendere autentico il teatro cantato. Lei cantando racconta, stana il personaggio, ne manifesta le ragioni. Carmen è totalmente sua, dalla prima nota all’ultima: dalla Habanera, senza accenti, senza vezzi, evviva anche senza folklore, e con tutti gli obbligatori “couplet” (che hanno parole splendide, fondamentali) fino al drammatico Duetto finale con Don José. Impressionante l’identificazione del mezzosoprano sulla parola: quando scandisce «Non! Tu ne m’aimes pas!» sembra incidere il ghiaccio. Ed è chiaro che nel suo modo di porgere la storia di una donna poco prima di essere assassinata, la Antonacci non stia semplicemente cantando, ma testimoni il presente. Con la stessa valenza catartica che esercitava sulla violenza umana la tragedia greca.

L’altro aspetto che colpisce del suo Bizet è che suoni totalmente francese, in maniera radicale: nella letteratura corrente Carmen viene sempre presentata come la prima opera spagnola. Immersa nei ritmi, nelle citazioni, nel profumo della cultura sivigliana. Invece la Antonacci, complice una pronuncia che non è solo pronuncia, ma possesso dall’interno della sonorità della lingua, restituisce la totale appartenenza di Carmen alla cultura francese. La zingara, la sigaraia, non è una figuretta da cartolina, graziosamente esotica. Al contrario: è una regale tragédienne. Può parlare di libertà femminile e di diritto al pensiero solo perché è una francese. E solo la Francia conosceva la Bohème e ne aveva fatto una corrente d’arte.

A Torino si dà poi la Carmen originale, cioè coi parlati. Un po’ tagliati, ma dove lei svetta anche come pura attrice. L’autentico francese (che rende per contrasto un po’ imbarazzante quello un po’ sommario di tutti gli altri della compagnia), così sensuale e ombreggiato, crea la vera fascinazione di Carmen. Don José viene sedotto da quel canto cangiante, diabolico, spezzato, colto, profondo. Opposto al tradizionale e petulante implorare di Micaēla. Che pure è la perfetta Irina Lungu, impeccabile, dai fiati importanti. Brava e adeguata, come pure lo sono Anna Maria Sarra (soprano deciso) e Lorena Scarlata Rizzo, le due amiche Frasquita e Mercédès. Lui, Dmytro Popov, ha presenza e bel timbro: il regista ne valorizza il naturale profilo, inizialmente distaccato, freddo. Che però poi si trasforma in violenza belluina, in crescendo. Non così il signorile Escamillo di Vito Priante, elegante come un damerino, più intellettuale che torero.

La scena è una semplice pedana circolare, simbolica, in forte pendenza: resta identica per i quattro atti, variando solo alcuni minimi oggetti d’arredo, tipo un cane randagio (di peluche) all’inizio o una doppia porta per l’efficace ingresso delle vocianti sigaraie. Il pubblico torinese trova audace l’albero nodoso di olivo, che caratterizza solitario l’ultimo atto. Per cui borbotta all’apertura di sipario, reclamando la tradizionale arena. Ma le luci, di Martin Gebhardt riprese da Andrea Anfossi, sono smaglianti e di effetto. Al contrario dei costumi di Su Bühler, con abitini e divise, un po’ dimessi. E forse per Carmen un paio di scarpe in più, oltre a queste rosse ed eleganti si potevano anche acquistare: fatali nella scena della danza seduttiva, sono poco realistiche in montagna. Di stabile qualità, come sempre, Orchestra e Coro del Regio, diretti da Asher Fisch, che stacca tempi snelli e una Ouverture dettagliata e originale. Anche i bambini sono impeccabili, professionali nel canto e nelle corse e salti in scena: sono voci bianche di monelle. Future Carmen, probabilmente.

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