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Terapia genica, dalle parole ai fatti

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anemia drepanocitica

Terapia genica, dalle parole ai fatti

L’anemia a cellule falciformi, anche nota in versione greca come anemia drepanocitica, e universalmente nota in versione inglese come sickle cell anemia (SCA), è una malattia ereditaria assai seria che ha molti primati nella storia della biologia e della medicina. In primo luogo il termine malattia molecolare, ormai in uso corrente, è stato coniato nel 1949 proprio per la SCA, quando Linus Pauling e Harvey Itano hanno scoperto che una anomalia dell’emoglobina (chiamata emoglobina S per sickle) è causa della malattia. In secondo luogo i geni dell’emoglobina sono stati i primi geni umani identificati e conosciuti per intero. In terzo luogo si è capito da più di mezzo secolo che il gene dell’emoglobina S, se in doppia dose produce la SCA, in dose singola non dà alcuna malattia, ed invece protegge dalle forme più gravi di malaria. Questo fenomeno biologico spiega in un colpo l’epidemiologia della malattia: dei circa 300.000 bambini che nel mondo nascono ogni anno con SCA, più di tre quarti nascono in Africa. Si tratta evidentemente di uno dei maggiori problemi della sanità in questo continente. Forse è anche il primo caso in cui un problema di sanità pubblica si potrebbe risolvere con la terapia genica.

Nonostante la frequenza più alta della malattia sia in Africa, occorre riconoscere che la maggior parte delle ricerche sulla natura della SCA e su come affrontarla sono state condotte nella parte Nord del mondo, dove pure si sono tenuti da decenni innumerevoli convegni scientifici sull’argomento. Per questo è molto significativo che alla fine di maggio ha avuto luogo a Kampala, in Uganda, un congresso internazionale mono-tematico sulla SCA, che forse per la prima volta ha radunato più di 500 ematologi, infermieri, ricercatori e pazienti da 19 paesi africani, oltre a partecipanti europei, americani ed asiatici.

Si è parlato di tutti gli aspetti della malattia: dal controllo delle crisi dolorose, alle complicanze più gravi che possono causare morte o disabilità protratte, agli aspetti socio-economici. Ma forse il leit-motif del convegno – o almeno di come io lo ho percepito – è stato quello delle contraddizioni. (1) Una terapia definitiva, il trapianto di midollo osseo, può essere offerta a chi ha un parente compatibile. In pratica, però, anche nei paesi più sviluppati solo una piccola percentuale di pazienti con SCA riceve questa terapia: o perché non ha un donatore disponibile, o perché il paziente è consapevole che i rischi sono statisticamente sempre più bassi, ma non nulli; o perché la procedura è troppo dispendiosa. (2) Negli ultimi 20 anni si è assodato che anche interventi non definitivi sono importanti: particolarmente il controllo di complicanze infettive attraverso vaccinazioni ed antibiotici. Queste misure richiedono diagnosi precoce, meglio ancora alla nascita: paradossalmente, lo screening neonatale si è praticato in alcuni paesi dove la malattia è rara, ma non in altri dove la malattia è assai più comune.

È stato gratificante apprendere nel corso del congresso che programmi pilota di screening si sono avviati ora anche in Africa. (3) La SCA come tale non dà danni neurologici né ritardo mentale; ma comporta il gravissimo rischio di causare in bambini trombosi cerebrali (stroke: un evento che in genere è tipico invece dell’età media e avanzata). Per prevenire queste complicanze, come pure le crisi dolorose che più impattano sulla qualità di vita, è stata dimostrata l’efficacia di un farmaco, l’idrossiurea, che potrebbe essere di beneficio alla maggior parte dei pazienti con SCA: ma in Africa meno dell1% di loro lo riceve.

Queste ed altre contraddizioni hanno avuto l’effetto positivo di far capire a molti che è tempo di passare dalle parole ai fatti. Per troppi anni ho sentito dire che per curare questa malattia«dobbiamo anzitutto saperne di più»’, perché le manifestazioni cliniche sono cosi variabili; o che ci sono problemi etici nell’intraprendere uno screening. In realtà ne sappiamo più che abbastanza per essere sicuri che non è etico non dare l’idrossiurea a migliaia di bambini e adulti con SCA. Mi ha entusiasmato sentire come Isaac Odame, ematologo del Ghana e attuale presidente del Global Sickle Cell Network, e Leon Tshilolo, ematologo congolese, siano stati capaci di enunciare questo ed altri concetti a due ministri della Salute (Uganda e Nigeria) intervenuti al congresso; e mi sento onorato di essere stati al tavolo intorno al quale si è concordata la firma di una Dichiarazione di Kampala su quali misure vadano adottate nei prossimi anni: tenendo conto soprattutto di quali siano, in Africa, le impressionanti dimensioni del problema.

A confronto di tali dimensioni, che cosa può significare un singolo paziente? Molto, se è il primo nel mondo a guarire grazie alla terapia genica. Marina Cavazzana-Calvo (Parigi) ha presentato un aggiornamento sull’unico paziente SCA nelle cui cellule staminali ematopoietiche è stato inserito un gene normale che produce emoglobina normale anziché emoglobina S. I dati per esteso non sono ancora pubblicati; ma da quando è stata eseguita la procedura terapeutica – simile in parte a un trapianto di midollo – l’anemia è migliorata senza trasfusioni; e, a differenza che nel trapianto di midollo, nessun donatore è coinvolto, e pertanto non esistono problemi immunologici. Il termine terapia genica suona alta tecnologia; e siamo lontani dal potere considerare questo approccio come applicabile di routine al grande numero di pazienti SCA, ad esempio, della Tanzania. Alcuni di noi pensano però che, proprio dove le risorse sono limitate, potrebbe essere razionale e ragionevole “saltare” il trapianto di midollo e puntare direttamente alla terapia genica della SCA.

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