Cultura

Gli animali hanno diritti?

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DILEMMI MORALI

Gli animali hanno diritti?

Illustrazione di Guido Scarabottolo
Illustrazione di Guido Scarabottolo

Una volta, da bambino, un lontano parente mi portò a vedere uno spettacolo che non avrei più dimenticato. In un vasto campo era stato approntato un sistema di gabbiette dalle quali, a intervalli regolari, volavano fuori dei piccioni. Di norma, però, il loro volo durava pochissimo: appostato a poca distanza, c’era infatti un manipolo di cacciatori che facevano a gara a chi ne uccideva di più. Il lontano parente mi spiegò che il tiro al piccione era una disciplina sportiva; ma io, benché intellettualmente alle prime armi, stentai non poco ad apprezzare lo spirito agonistico di quell’attività.

Tra gli anni Sessanta e Settanta c’erano in Italia più di duecento campi di tiro al piccione. Oggi però, come si legge sul sito web Caccia e passione, «Solo in Spagna e Portogallo si pratica quest’antica e affascinante disciplina... Il tiro al piccione è un’antica disciplina che tutti gli appassionati dovrebbero provare almeno una volta». L’abolizione in quasi tutta Europa di questa «antica e affascinante disciplina» è uno dei tanti esempi di quanto sia mutato, soprattutto in tempi recenti, il nostro atteggiamento verso gli animali. La caccia è stata molto limitata e molte specie protette; limiti severi sono stati posti al mondo in cui gli animali sono trattati nei circhi e negli zoo; è vietata la sperimentazione sulle scimmie antropomorfe; le condizioni degli allevamenti sono molto più controllate; il numero di vegetariani e vegani è costantemente in crescita, e così via. Non sorprende, dunque, che le discussioni sui limiti, morali e legali, che andrebbero posti al nostro modo di trattare gli animali siano sempre molto vivaci.

Nell’ampia pubblicistica su questi temi, è ora uscito un volume, Cavie? Sperimentazione e diritti animali, di Gilberto Corbellini e Chiara Lalli, che non mancherà di suscitare altre polemiche. Gli autori ne sono consapevoli: «Quello che ci apprestiamo a scrivere forse farà arrabbiare molti e soddisferà pochi». Com’è già chiaro dal titolo, questo libro si incentra sul tema della liceità dell’uso degli animali nella sperimentazione scientifica: e conoscendo le posizioni che Corbellini e Lalli hanno più volte espresso in pubblico (il primo è una delle firme di punta di questo supplemento culturale), è prevedibile che i primi ad arrabbiarsi saranno i fautori dei diritti degli animali. Ecco, in effetti, come gli autori presentano la tesi fondamentale del volume: «Un libro che difende le ragioni dell’utilizzo degli animali nella sperimentazione, illustrando incoerenze, ipocrisie e illusioni delle posizioni che attribuiscono agli animali uno statuto morale originario, o smascherando “diritti” che sono invenzioni culturali del tutto estranee al mondo naturale, irriterà coloro che non accettano di essere tacciati di irrazionalità».

Buona parte del volume è dedicata a una circostanziata difesa dell’importanza dell’uso di animali (di «cavie», appunto) nella sperimentazione scientifica. In questa prospettiva, oltre a vari altri argomenti, gli autori criticano con forza l’idea che la sperimentazione animale non abbia giocato in passato, e non giochi oggi, un ruolo cruciale e insostituibile nel progresso scientifico: «È fuori dalla realtà negare che la sperimentazione animale sia stata fondamentale per il progresso delle conoscenze umane, per la sconfitta da parte della medicina di molte malattie per ridurre significativamente la sofferenza umana. Senza peraltro... far aumentare quella animale». E, anzi, notano Corbellini e Lalli, benefici dalla sperimentazione animale sono venuti non solo agli esseri umani, ma agli stessi animali, come mostrano i progressi della scienza veterinaria.

Tuttavia, procedendo nella lettura del libro, la posizione degli autori si dimostra più sfumata di quanto possa sembrare dalle dichiarazioni iniziali: e ciò per due ragioni. In primo luogo, Corbellini e Lalli insistono molto sull’importanza della ricerca di metodi alternativi alla sperimentazione animale: «La verità è che non possiamo ancora fare a meno dei modelli animali nella ricerca biomedica. Dobbiamo ridurne il numero, evitare loro dolore e sofferenza, garantire loro le migliori condizioni di vita possibile e, nel frattempo, dedicarci alla ricerca di metodologie alternative affidabili... Il VII Programma quadro [dell’EU] ha destinato 250 milioni di euro alla ricerca di metodi alternativi. Horizon 2020, il programma per la ricerca e l’innovazione, finanzia ricerche e metodi che non usano animali per valutare la sicureza delle sostanze chimiche, dei contaminatori alimentari e dei nanomateriali. La strada più sensata sembra essere questa». Insomma, appare plausibile, ed è comunque molto auspicabile, che della sperimentazione animale presto non ci sia più bisogno.

In secondo luogo, gli autori concedono che, sebbene attualmente non ci siano buone ragioni scientifiche per rifiutare l’uso di cavie animali, vi possano essere buone ragioni morali: «Chi vuole condannare la sperimentazione animale deve rinunciare all’argomento scientifico, che non è sostenibile, per concentrarsi su quello morale. Ma... si tratta di un esercizio non facile». In effetti, la discussione in prospettiva morale è concettualmente complessa. Non tutti saranno d’accordo, per esempio, sull’ideale di integrità morale adottato dai due autori, ossia «l’idea kantiana di santità, cui si può tendere e aspirare, ma che non si potrà mai raggiungere» (un ideale molto austero su cui anche molti kantiani contemporanei nutrono dubbi).

Un primo modo di porre la questione è di chiedersi se gli animali abbiano qualche prerogativa che dia loro diritti, tra cui quello di non essere usati in esperimenti scientifici. Gli autori però scartano tutte le principali proposte in tal senso, quali il possesso della coscienza (anche perché, notano, la coscienza è portatrice di inganni e di autoillusioni), di dignità (una nozione a loro giudizio troppo vaga) o della vita in quanto tale (perché non può essere presa come un valore in sé).

Gli animalisti naturalmente avrebbero da ribattere su tutti questi temi (e, in ogni caso, Corbellini e Lalli paiono concedere la legittimità almeno del bando degli esperimenti sui primati superiori). Ciò che è più interessante, però, è che l’atteggiamento degli autori cambia quando, dalla controversa nozione di diritti degli animali, passano a discutere la concezione utilitaristica del campione dell’Animal Liberation Movement: il celebre filosofo australiano Peter Singer. L’idea fondamentale di Singer è che la nozione moralmente rilevante da considerare non è quella di diritti animali, ma quella di sofferenza: noi dovremmo, cioè, porci l’obiettivo morale di diminuire il più possibile la sofferenza, sia che la patiscano gli esseri umani sia la patiscano gli animali. Tuttavia, notano Corbellini e Lalli, Singer riconosce che, in alcuni casi, affinché la sperimentazione scientifica possa procedere, è ancora indispensabile utilizzare esseri viventi e che è moralmente lecito. Tuttavia, a suo giudizio, l’ottica da cui dovremmo porci è quella della minimizzazione del dolore, che in sé non presuppone a priori il privilegio degli umani: in alcuni casi, infatti, dal punto di vista morale all’uso di cavie animali sarebbe preferibile l’uso di cavie umane. E questo è un punto su cui Corbellini e Lalli sembrano concordare: «siccome non è ancora stato confutato da nessuno che noi siamo il nostro cervello, e che dove non c’è più coscienza non esiste più alcuna persona, non dovrebbe essere giudicato immorale fare esperimenti su esseri umani in stato vegetativo persistente, a condizione ovviamente che il corpo senza alcuna speranza di risveglio sia stato messo a disposizione da quell’individuo quando era in vita». Più in generale, in questo volume non emergono critiche dirette e sostanziali alla posizione di Singer.

Riassumendo: Corbellini e Lalli sostengono che la sperimentazione sugli animali è, almeno sino a quando non ci troveranno alternative, scientificamente indispensabile e moralmente lecita. Ma, aggiungono, la sofferenza degli animali va limitata il più possibile e, in taluni casi, sarebbe moralmente preferibile la sperimentazione sugli esseri umani che non hanno più lo statuto di persone.

Sorprendentemente, dunque, la distanza tra la posizione di Corbellini e Lalli e quella di Peter Singer sembra più di grado che di sostanza. Oltre a molti animalisti, dunque, alla lettura di questo libro si arrabbieranno anche molti dei difensori del primato umano rispetto agli animali.

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