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Wimbledon per tutti gli anglofili e europeisti

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lettera dall'all england club

Wimbledon per tutti gli anglofili e europeisti

Campioni. Il detentore  del titolo, il serbo Novak Djokovic
Campioni. Il detentore del titolo, il serbo Novak Djokovic

Tira un’aria strana a Wimbledon nell’anno 1 dell’era Brexit.

Dietro i Doherty Gates, i cancelli dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, come sempre la statua di Fred Perry guarda la fiumana degli appassionati che vanno ad assieparsi contro le transenne all’entrata del Centre Court. Andy Murray gli ha tolto un peso dalle spalle di bronzo quando nel 2013, settantasette anni dopo il vecchio Fred, ha riportato a casa il trofeo con la scritta «Championship of the World».

Strano destino, quello di Murray. Il tennista di Dunblane, scampato alla strage per mano di un folle che entrò nella sua scuola elementare sparando all’impazzata, fu per anni solo un «bloody Scot», un maledetto scozzese, quando perdeva, e fin quando non si spense del tutto il bravo ragazzo delle Home Counties, l’oxfordiano Tim Henman. Allora, Andy si trasformò in grande speranza della nazione e poi nell’eroe dei tabloid xenofobi e delle signore dei circoli dell’Inghilterra meridionale, che ora, ammantate della Union Jack, hanno votato per Brexit per riprendersi il passato imperiale che non tornerà.

Tra le tante analisi che hanno esaminato da ogni sfaccettatura tutte le conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, politiche, economiche, sociologiche, ce n’è qualcuna che ha affrontato l’impatto su Andy Murray? Quando il Regno, non più unito, si sarà allontanato dall’Europa e Andy, non più ragazzo, si presenterà all’All England Club per i colori della Scozia? Non andrà anche lui in crisi di identità davanti al pubblico non più di casa?

Tirato su a pane e tennis da mamma Judy, sposato a una ragazza figlia di un maestro di tennis, Andy non si farà di questi problemi e penserà a giocare, magari sfoderando qualche battuta della sua ironia tagliente sullo sciovinismo dei suoi non più compatrioti.

Murray era arrivato a Wimbledon per fare da unica diga contro il Grande Slam di Novak Djokovic, che aveva già vinto in Australia e al Roland Garros. Ma Djoko ha pensato bene di autodistruggersi perdendo in 4 set con l’americano Sam Querrey nella più clamorosa delle sorprese. Venerdì sera lo aveva salvato la pioggia quando era sotto due set a zero (come nel 2015 l’oscurità contro Kim Anderson), ieri non c’è stato proprio più niente da fare. Nole giocava contro se stesso e la maledizione del Grande Slam che l’anno scorso allo Us Open aveva colpito Serena Williams per mano della nostra Robertina Vinci. Adesso, con Rafa Nadal che è rimasto a casa, Roger Federer che ha ancora la classe ma forse non più il fisico per giocarsela su cinque set, e gli altri che devono ancora dimostrare di poter uscire dal ruolo di comprimari, Murray è quasi costretto a vincere. Può essere l’ultima occasione per sventolare la UnionJack.

A pensarci bene, i tennisti di oggi essendo tipi non complicati, il problema di Brexit se lo pongono di più gli spettatori. Quelli dall’Europa continentale sono un po’ straniti, per la prima volta non sono del tutto sicuri di essere benvenuti. I banchieri della City, che da sempre affollano le tribune e vedono nel torneo una buona occasione per passare la giornata lontani dall’ufficio e magari combinare qualche affare, ripensano al vecchio adagio, secondo cui la City è lo specchio di Wimbledon: gli inglesi ci mettono i campi e fissano le regole e gli stranieri giocano, e soprattutto, vincono. Il che continuerà a essere vero dei Championships, soprattutto se anche lo scozzese Murray tornerà straniero.

Ma, fra uno champagne e l’altro nelle suites della corporate hospitality, i banchieri si chiedono perplessi se sarà ancora vero della City, dove fra un po’ gli toglieranno il “passaporto finanziario”. Un trasloco a Dublino, o ancor peggio a Francoforte, non entusiasma nessuno: certo, lì non c’è Wimbledon per intrattenere gli investitori.

Come in tutti gli anni di grandi crisi finanziarie, a discettare di mercati all’All England Club ci penserà Gianni Clerici, che passa per «quello del tennis», come lo definì snobisticamente Maria Bellonci (e lui, con una buona dose di autoironia tutta inglese, ne ha fatto il titolo della quasi autobiografia: Quello del tennis, Mondadori, euro 20, pagg. 200), o, come più benevolmente e più correttamente disse Italo Calvino, «uno scrittore prestato allo sport». Mio vicino di banco nella sala stampa dell’All England Club, in epoca di turbolenze Clerici, più che sul tennis, mi intrattiene su finanza e investimenti e spesso ho il sospetto che ne sappia più di me.

A Wimbledon, Clerici c’è arrivato per la prima volta negli anni 50, viaggiando dall’Italia in 500 giardinetta a settanta all’ora, da solo, per la defezione di un compagno, e la sua avventura agonistica sui prati di Church Road si è conclusa presto: «In quel fatidico lunedì a Wimbledon, per due set semplicemente non arrivai a trovare la palla», ammette.

Non senza lasciare tuttavia un segno indelebile sull’uomo, un «Italian-born Englishman», un inglese nato per caso a Como, più che sul tennista.

Del resto, la sua scelta, estetica più che politica, l’aveva fatta anni bambino al Tennis Club Alassio, dove, davanti alla scelta fra un gerarca fascista in orbace tirato a lucido e, «chissà perché, speroni», e lo spiegazzato aristocratico inglese Lord Hanbury, non ebbe dubbi. «Scegliere fra quei due tipi d’omo era forse ovvio, o addirittura superfluo», scrive Clerici.

Che oggi, come tutti gli anglofili, che tanto hanno investito nel rapporto con l’Inghilterra, la sua cultura, i suoi costumi, sentirà Brexit come una sorta di offesa personale.

Non ci resta che Wimbledon.

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