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Ragazzi, qui si gioca all’infinito

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Ragazzi, qui si gioca all’infinito

Maurits Cornelis Escher. «Mano con sfera riflettente», 1935, litografia, Fondazione M.C. Escher
Maurits Cornelis Escher. «Mano con sfera riflettente», 1935, litografia, Fondazione M.C. Escher

Avendo rievocato, domenica 12 giugno, il modo in cui Jorge Luis Borges bambino aveva pensato per la prima volta alla nozione di infinito, un lettore ha pensato di aver riconosciuto la scatola di latta cui lo scrittore argentino accennava scrivendo che «in un angolo dell’immagine compariva la stessa scatola con la stessa figura, e su questa c’era la stessa figura e così via (almeno potenzialmente) all’infinito...». «Si tratta del cacao olandese Droste!», è stato il suggerimento del lettore. Ottima intuizione. Peccato solo che i ricordi di Borges siano di molto anteriori, risalendo ai primi del ’900, e che egli parlasse di una scatola di biscotti con sopra disegnata «una scena giapponese» con «bambini o guerrieri». Dunque la caccia a quest’altra scatola è ancora aperta e davvero saremmo felici se qualcuno ci dicesse di averla trovata. Nel frattempo però il cacao Droste lo ritroviamo nella mostra su Escher, nella sezione dedicata agli «escherabilia», che comprende copertine di libri e di dischi (Ummagumma dei Pink Floyd, per esempio, variante anch’essa dell’effetto Droste), locandine e pubblicità televisive, film, fumetti e oggettistica varia. Ma soprattutto, visitando la mostra, si può assistere dal vivo all’insorgere dello stupore borgesiano in un bambino di oggi, più di un secolo dopo.

Galleria di stampe, del 1956, è l’opera che Escher considerava la più riuscita delle sue illusioni: un osservatore all’interno di una galleria di stampe osserva un quadro che rappresenta un paesaggio di cui la galleria di stampe è parte integrante. A partire da quest’opera, i curatori della mostra hanno pensato bene di produrre un bel gioco al computer: una webcam permette allo spettatore reale di situarsi esattamente nella posizione in cui si trova lo spettatore della galleria nell’opera di Escher, e poi di spostarsi nella posizione più avanti, di tornare indietro, continuando a vedere se stesso come protagonista di un effetto Droste: avanti, e ancora avanti... «All’infinito!», abbiamo sentito esclamare un bambino (lui, spettatore nel quadro) all’unisono con la propria madre.

Basti questo episodio per dare il senso di una mostra che sì, contiene tutte le opere dell’artista olandese rendendone chiara la parabola creativa, ma che nel contempo rende partecipe lo spettatore del suo orizzonte di idee, senza il quale la sua opera risulterebbe incomprensibile, o fin troppo enigmatica. Le illusioni ottiche, in tale percorso, assumono un ruolo centrale soprattutto a partire dal 1936, anno in cui Escher comincia a utilizzare con sempre maggiore consapevolezza una serie di risultati della psicologia della Gestalt. Illusioni che si combinano con una sensibilità matematica e geometrica già fortemente esplorata in precedenza.

Escher però non è un matematico, e ciò rende ancora più sorprendente il suo modo di operare. Ne è un esempio proprio Galleria di stampe. Osservatela qui a fianco. Vedrete che al centro si trova un bollino bianco dove Escher appone la sua firma. È il sintomo di una intuizione, e insieme di uno smacco. L’autoreferenzialità dell’immagine è realizzata attraverso una deformazione prospettica che la ingrandisce per ogni lato di un fattore quattro. L’intelligenza grafica guida Escher verso un’intuizione matematica, della quale però non conosce la soluzione (e una cosa simile avvenne anche nel campo della cristallografia). Dunque non riesce a completare l’immagine e deve coprire lo smacco con la firma! Ma nel 2003 due matematici di Leida, Lenstra e de Smit, hanno dimostrato che la figura di quella litografia rientra nella geometria delle mappe conformi o isogoniche, ossia griglie che, pur sottoposte a deformazione, mantengono gli angoli inalterati. Così l’immagine è stata completata e appare in mostra anche senza il bollino bianco.

Giocare con l’infinito è tutt’uno con il giocare con la prospettiva, con la geometria (euclidea e non euclidea), con i solidi platonici e con i poliedri stellati, con la percezione visiva, con la logica e con i paradossi. Paradossi logici e visivi che hanno nomi ben precisi. Come ad esempio la scala di Schröder, che domina in Relatività (1953): una scala ambigua per come è disegnata in prospettiva, che appare contemporaneamente come costruita sul pavimento o sul soffitto e che può essere percorsa sia stando sopra sia stando sotto i gradini. La ritroviamo anche in Concavo e convesso (1955) dove si unisce a un altro paradosso visivo, cosiddetto “dei cubi reversibili” (dove le facce del cubo possono essere viste come interne o esterne). Un altro tipo di cubo ambiguo è il cubo di Necker, utilizzato pervasivamente in Belvedere (1958), così come altri cubi e triangoli impossibili, come quello di Penrose. Il massimo dell’autoriferimento, tipico dei paradossi logici come quello del mentitore («sto mentendo», «questa frase è falsa»), Escher lo ottiene visivamente con le mani che disegnano sé stesse in un’opera celeberrima del 1948. E che dire di Superficie increspata (1950), che gioca in maniera virtuosistica sulla tendenza del nostro apparato visivo a comporre in unità figure che in realtà, intere, di per sé non esistono, facendoci vedere la superficie dell’acqua, gli alberi che vi si rispecchiano e la luna che li sovrasta attraverso le increspature prodotte da due gocce (altrettanto inesistenti ma ben visibili!) cadute in uno stagno. Pura poesia ottenuta dalla consapevolezza di come funziona la nostra vista e di come essa possa ingannarci, così come avviene anche nella rivisitazione escheriana dell’arte della tassellatura e nelle figure incastonate tra loro, come in Giorno e notte (1938), in cui i virtuosismi della simmetria si uniscono alla forte consapevolezza, mutuata dagli studi percettologici, del funzionamento del rapporto figura-sfondo.

Potremmo proseguire ancora per molto. «All’infinito?!», chiederebbe forse qualcuno dei tanti bambini che si incontrano in mostra. Sì, all’infinito, o quasi, perché le idee qui proposte accendono in un gioco senza fine immaginazione e conoscenza, uniscono pensiero astratto e percezione sensibile entro spazi in cui l’infinito è a portata di mano, racchiuso in piccoli gioielli rifiniti quali sono le opere di Escher.

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