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I diari dell’inquietudine

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I diari dell’inquietudine

Matticchiate, di Franco Matticchio
Matticchiate, di Franco Matticchio

Era tardi quando André Gide si era presentato da Marcel Proust nel maggio 1921. Proust si stava preparando per uscire perché ormai non sperava più di vedere Gide. «Da quattro giorni manda ogni sera un’auto per venirmi a prendere, ma ogni sera non mi ha trovato», nota ironicamente in questi stimolanti diari ricchi di inediti. Nel rapporto tra un astro fisso del firmamento letterario francese come Gide e un astro nascente come Proust c’era un nodo nel senso letterale del termine che non si sarebbe mai sciolto del tutto. Convinto che Proust fosse solo un «farfallone mondano appassito», Gide aveva respinto quella che ancora non si chiamava La ricerca del tempo perduto. Però Célèste, la cameriera di Proust insospettita aveva notato che i nodi speciali con cui aveva chiuso il pacco non erano stati sciolti. Sorpreso dal successo inatteso del primo volume di Proust Gide non esitò a scusarsi. «Ho l’onta di esserne stato il principale responsabile e rimarrà uno dei rimpianti, anzi dei rimorsi più brucianti della mia vita».Pochi quanto Gide sapevano gestire così magistralmente i propri errori. In realtà dietro quella voluta disattenzione si potevano ipotizzare altre ragioni. Prima tra tutte la diffidenza di un autore già affermato verso un possibile rivale.

Non erano poche le cose che li univano. Erano entrambi facoltosi e omosessuali, ma come si vide quella sera erano anche profonde le cose che li separavano. Non si trattava solo dell’abilità con cui Gide, senza rinunciare ai panni del moralista, stava smettendo di nascondere la propria diversità. Avevano discusso sulla trasposizione eterosessuale degli amori segreti di Proust, uno stratagemma che a Gide sembrava un modo per condannare la diversità. Inoltre non riusciva a capire perché Proust rappresentasse gli atti omosessuali in modo grottesco. Al che l’altro gli aveva confessato che ad attrarlo non era quasi mai la bellezza, che pensava avesse poco a che fare col desiderio. Ma la frase di Proust che più era dispiaciuta a Gide era stata: «Potete scrivere quel che volete a patto di non dire io». Ora questo «io», tanto detestato da Stendhal, era, insieme allo scandalo, la chiave di volta della personalità e della carriera di Gide. Molto più abile di Proust e di Wilde aveva trasformato quella che agli occhi dei contemporanei era ancora un’inconfessabile colpa in un esempio di liberazione interiore e di sincerità.

Gide non abitava molto lontana da Proust. Se possibile la sua zona, la Villa Montmorency, un quartiere esclusivo di ville lussuose, separate dal resto della città era ancora più marcatamente signorile. Per farsela costruire, aveva venduto un castello di famiglia. Però in seguito, malgrado avesse scelto con cura l’architetto, si era sentito a disagio in quella casa troppo vasta e soprattutto troppo distante dall’immagine austera che intendeva assumere. Aveva cercato di attenuare l’impressione dei visitatori vivendoci come accampato, ma non aveva rinunciato a ricevere chi voleva impressionare, suonando, con notevole abilità, il pianoforte.

Alto e magro, Gide aveva presto rinunciato alla barba, assumendo l’aria, insinuavano i suoi nemici, di un rigido pastore protestante. Papini aveva notato che i suoi bellissimi occhi restavano «sfuggenti, come se non gli piacesse troppo farsi leggere l’anima». Quando lo attaccavano, Gide si difendeva malvolentieri, sapendo quando quei colpi giovassero alla sua immagine. «Il mio ruolo è inquietare» proclama Gide e ormai uno stuolo di giovani vedeva in lui il liberatore dalle ipocrisie dei loro padri.

Oggi i suoi libri, tranne forse I sotterranei del Vaticano appaiono appannati. Tranne forse il resoconto del suo viaggio in Urss, dove, dopo avere goduto di una fastosa ospitalità, aveva dovuto confessare la fine di ogni illusione sul comunismo reale. Ma il Journal 1887-1950, squisitamente tradotto da Sergio Arecco, cui Gide teneva moltissimo rimane uno straordinario documento del percorso di un funambolo che ricadde sempre dalla parte giusta.

I diari non sono, come spesso i romanzi, dipinti ad olio, ma acqueforti e per incidere c’è bisogno dell’acido, uno strumento che non manca certo a Gide. Magnifico per esempio il sarcasmo con cui evoca il suo incontro con Cocteau, durante la prima guerra mondiale. Altoborghese quanto lui, ma di ventanni più giovane Cocteau si presenta nell’elegante sala da tè in cui l’ha invitato «quasi vestito da soldato», ma «non rinuncia a niente di sé» e la gravità degli eventi «conferisce solo un’aria marziale alla sua petulanza».

La morte, nel 1938, della moglie, consumata dalla tardiva scoperta della sesssualità del marito, parve sospendere per sempre il diario dello scrittore, che l’aveva curata a lungo. Poi la vita era tornata a scandirne le pagine. Gide decise di adottare la figlia Catherine, avuta nel 1923 dall’amica Elisabeth Van Rysselberghe. Per tutti quegli anni aveva temuto che Madame Gide lo venisse a sapere. «Era una cosa che l’avrebbe ferita, le avrebbe fatto talmente male...»

Un anno dopo partì in Egitto. Arrivato a Luxor confessò: «Non ho più una gran voglia di fornicare; o almeno non è più un bisogno come ai tempi della mia gioventù. Ma ho bisogno di sapere che, se volessi, potrei farlo».

Ad Antibes, Gide aveva rischiato lo scandalo. I figlioletti di un medico si erano lamentati di un anziano signore, che li aveva attirati a casa sua. Messo davanti alle sue responsabilità, l’ottantenne Gide si era limitato a chiedersi ad alta voce: «Il Premio Nobel basterà a coprirmi?».

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