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Cachemire che motivo

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Arte

Cachemire che motivo

Sinuoso. Cappotto (1907), di Ch. Drecoll, (Coll. E. Quinto e P. Tinarelli)
Sinuoso. Cappotto (1907), di Ch. Drecoll, (Coll. E. Quinto e P. Tinarelli)

Ce l’avete presente tutti: il motivo cachemire (non dunque la materia, parliamo proprio dell’icona grafica) – che altri chiama boteh o paisley – è quella sorta di goccia stilizzata e allungata che termina con un ripiegamento sinuoso sulla parte interna: un ghirigoro finale che conferisce al tutto la forma di un bozzolo, che riporta al mondo della natura. Ma è un prodotto culturale dei più tenaci e resistenti, e non finisce di affascinare. Spiega molto bene Francina Chiara nel saggio che introduce il catalogo (a cura di M. Rosina e F. Chiara) della bella mostra «Cachemire, il segno in movimento», che fino al 18 settembre 2016 nelle due sedi di Villa Sucota (Como) e Villa Bernasconi (Cernobbio), ripercorre, grazie all’iniziativa della Fondazione Ratti, fortuna e applicazione di questo motivo ricorrente. Segno in movimento perché ricco di valenze antropologiche e formali e perché altalenante, nel suo essere protagonista o meno, di stagioni del vestire che si sono alternate nei secoli. Non poteva che essere la Fondazione Ratti, del resto, a celebrare questo motivo: se dai Sassanidi agli anni 80, passando dalle infatuazioni napoleoniche e all’orientalismo di primo Novecento, c’è stato qualcuno cha perseguito, adorato e glorificato quel minuscolo, ripetibile, ipnotico, segno iconico, questi è stato Antonio Ratti. Lui che aveva fatto del cachemire stampato l’essenza e il segno della sua azienda (con grande fortuna del tessuto per cravatte in America) e che, dappertutto nel mondo, aveva cercato i segni di quella presenza sui tessuti. Fino ad allestire mostre memorabili che si erano poi tradotte in libri che ancora oggi sono pietre portanti per conoscere l’argomento.

In mostra sono proprio gli scialli indiani ed europei della collezione di Antonio Ratti (alcuni mai esposti prima e anzi restaurati per questa occasione) a condurci per mano e farci apprezzare l’uso del motivo. E poi ecco la selezione di abiti, che spazia dalla metà dell’Ottocento al contemporaneo. Sono circa 150 pezzi – tessuti, scialli, abiti, accessori e cravatteria – e c’è da sbizzarrirsi e meravigliarsi ad ogni passo. Ecco il fantastico mantello da sera ricamato di Drecoll del 1907 («diagonale di lana a intarsi patchwork ricamata in oro e argento filato e lamina metallica dorata, alamari in cordonetto di seta policroma, bottoni rivestiti con fili di seta policromi, nappine di fili di seta policromi, filati metallici e palline rivestite, passamaneria a frange di sete olicrome e oro filato, passamaneria oro, rosso e verde, ottoman di seta rosa»; dalla Collezione Enrico Quinto e Paolo Tinarelli recita il catalogo, sontuosamente, come il capo). Era appartenuto a Margherita d’Abro Pagratide che nel 1910 sposò Paolo Venturi Ginori Lisci. Di nobile famiglia armena stabilitasi a Napoli, Margherita (Indy) era figlia di Tigrane Pasha, ministro degli Esteri d'Egitto dal 1892 al 1894. Ed effettivamente, l’esotismo fa il pari con l’eleganza e l’eclettismo di questo pezzo. E ancora: ecco la vestaglia kimono conservata nel guardaroba di Gabriele D’Annunzio al Vittoriale; o, per stare nel contemporaneo, un abito di Valentino Boutique indossato da Patty Pravo per un servizio su Vogue, e i capi di Mila Schön, Lancetti e Gianfranco Ferré. Tutti, doverosamente, a rendere omaggio alla tradizione di un segno così antico e forte. Che, come tutti i veri classici, non passerà mai di moda.

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