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Fiori nel deserto di Parigi

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Fiori nel deserto di Parigi

Scena nel parco. Dipinto di Marguerite Nakhla, 1940 circa, Barjeel Art Foundation, Sharjah
Scena nel parco. Dipinto di Marguerite Nakhla, 1940 circa, Barjeel Art Foundation, Sharjah

Come i giardini orientali fiorivano nel deserto, così quello effimero del paesaggista Michel Péna è spuntato fuori da una spianata di cemento, a due passi dalla Senna. È la sorpresa più lieta della mostra Jardins d’Orient, organizzata a Parigi dall’Istituto del mondo arabo. Su oltre 2mila metri quadrati si allineano rose (sempre in fiore, i vasi vengono sostituiti di continuo), piante vivaci, ulivi, aranci, nespoli: quell’intreccio di fiori e frutta che richiama la tradizione del giardino arabo-musulmano. Stacca con il contorno urbano e modernista, tra i palazzoni dell’università di Jussieu (appena ristrutturata e bene, ma cemento è) e la facciata dell’Istituto, dai motivi mozarabici, più umana, ma sempre di vetro e cemento si tratta.

Verso un nuovo giardino a Parigi? Lascia sbigottiti: si ventila ormai la possibilità che resti permanente, anche dopo il 25 settembre, quando la mostra avrà fine. La reinterpretazione del giardino orientale di Péna si stringe intorno a un tappeto vegetale sospeso. Si sale su una passerella e, con un po’ di pazienza e concentrazione, lì si può ammirare una sorprendente anamorfosi, ideata da François Albanet: l’illusione ottica permette di scorgere un poligono stellato.

Dal Maghreb fino all’India. Abbiamo iniziato dalla fine, perché la visita dell’esterno è la degna emanazione di quella all’interno dell’Istituto del mondo arabo, dove si ripercorre la storia dei giardini orientali, dagli albori, quando nella Mesopotamia, più di 10mila anni fa, l’uomo cominciò ad addomesticare la natura, fino a oggi (si spiega come è stato concepito il parco Al-Azhar in pieno Cairo, fra il 1997 e il 2006). Si spazia dal Marocco all’India della dinastia Moghul (1526-1857), passando per l’Alhambra di Granada.

A caccia di una “chicca”. Il percorso non è cronologico ma tematico e una prima parte è tecnica (le immagini in bianco e nero ritraggono lo shaduf, ingegnoso strumento per pompare l’acqua, ideato in Egitto fin dall’antichità). Il racconto avviene attraverso un’imprevedibile miscela di disegni, miniature, pitture, sculture. E addirittura gioielli e tessuti, perfino il cappotto di un ricco bambino indiano della fine dell’Ottocento, dov’è ricamato un puzzle di foglie colorate. Una tela variopinta, realizzato da Marguerite Nakhla verso il 1940, ritrae un parco in Egitto, pieno di donne, quasi nessuna velata.

Il mito di Babilonia e il paradiso persiano. I giardini pensili di Nabucodonosor nella perduta Babilonia sono rimasti un mito, tra il reale e la fantasia: un filmato in 3d ne ristabilisce la concretezza, pieni di alberi da frutto, perché da allora il giardino orientale associa l’utile e il dilettevole, l’estetica e la produzione di alimenti. La sua divisione in quattro spicchi, invece, ha origine in Persia, con Ciro il Grande, nella città da lui fondata, Pasargades. Lì fu inventata la pianta a croce, che rimanda ai quattro fiumi del Paradiso, nel Corano. Il secondo piano della mostra è attraversato da un lungo canale di acqua e si sente davvero il cinguettio degli uccelli. Quella geometria del giardino d’Oriente rappresenta un ordine morale, un rigore compensato dalla grande sensualità delle piante, dei profumi, dei rumori.

Oriente-Occidente, andata e ritorno. Nell’antica Persia chiamavano il giardino «pari-daeza». Significava «ambiente chiuso»: un paradiso, un lembo di Eden, separato dal resto del mondo, perfino segno di potere per chi era riuscito a crearlo su questa terra. È l’influenza soprattutto di alcuni architetti paesaggisti francesi, che portavano con loro la tradizione del parco pubblico di tipo haussmaniano, a trasformare il piccolo giardino arabo in uno spazio aperto a tutti: vedi il caso di Jean Claude Nicolas Forestier, a lungo attivo in Marocco, tra gli anni dieci e venti del secolo scorso. La mostra dedica a questi personaggi una sezione, soffermandosi pure sui giardini Majorelle a Marrakech, per tanti il condensato di quelli orientali perfetti. Ma in realtà frutto della libera interpretazione del pittore Jacques Majorelle: li progettò nel 1931.

Una soluzione attuale ed ecologica. Rispetto agli impeccabili pratini all’inglese, grandi consumatori di acqua, che oggi vanno così di moda nel Qatar, nell’Arabia Saudita o nell’Oman, i giardini orientali tradizionali, come mostra l’esposizione, usano le specie vegetali più adatte ai climi secchi (bouganville, rose, fichi, mandorli) e sono concepiti in modo tale da riciclare l’acqua in permanenza. Una sezione è dedicata alla “tulipanomania”, scoppiata in Turchia e poi esportata in Olanda dal sedicesimo secolo. Si apprende anche che il cipresso, orgoglio della Toscana, è da secoli protagonista nei giardini dal Maghreb all’Afghanistan.

Quando diventano opere d’arte contemporanea. All’Istituto del mondo arabo hanno indagato pure i riflessi della tradizione del giardino orientale sugli artisti di oggi. Come l’iraniana Soody Sharifi, di cui è esposto Lovers picnicking, del 2010: in una scena tradizionale persiana, quella di un parco in piena animazione, sono inserite foto della società iraniana attuale. Sharifi naviga tra l’arte molto codificata della miniatura della Persia e l’influenza occidentale del collage. Infine è esposto un olivo immaginato dall’artista palestinese Abdul Rahman Katanani, con i rami folti e numerosi, in filo spinato. Per ricordare la magra esistenza in un campo di rifugiati. Su una terra che sarebbe potuta diventare un giardino. Pari-daeza.

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