Cultura

Maschilisti come robot

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Scienza e Filosofia

Maschilisti come robot

Nell’avvenire immaginato dai neofuturisti vivremo circondati da molti robot umanoidi. Specifico “umanoidi” perché già viviamo circondati da molti robot: dagli ascensori alle lavastoviglie ai motori di ricerca, un’accezione larga di “robot” ci farebbe includere tutti gli oggetti che fanno al posto nostro del lavoro fisico o mentale in modo semi-autonomo. Potremmo voler restringere variamente l’accezione, limitarci agli oggetti semoventi: gli aspirapolvere autonomi sarebbero dei robot, le lavatrici no. Comunque sia, l’immaginazione popolare e l’industria culturale riservano sicuramente un posto speciale agli umanoidi. I futuristi li vedono entrare nelle nostre case – entro pochi anni, ma fosse per loro sarebbe questione quasi di mesi – assisterci in mille compiti noiosi o gravosi, sostenere gli insegnanti nelle scuole, seguire e sostituire il lavoro di sempre più sparuti operai nelle fabbriche.

Ma perché dar foggia umana ai robot? Ci sono due ragioni fondamentali. La prima è che il nostro ambiente è come un calco del nostro corpo: sedie, tavoli, gradini, porte, interruttori, tastiere, maniglie, hanno la forma che hanno e si trovano dove si trovano perché il corpo umano ha la forma che ha e le possibilità di movimento che ha. Sarebbe sconveniente creare un interruttore grande come una porta e una porta grande come un interruttore. Che i robot si adeguino: se vogliono salire e scendere le scale, cucinare, sedersi a tavola con noi, se vogliono combatterci (già, perché ci sono anche i robot guerrieri), buon per loro se ricalcano un ambiente che è il nostro calco. La seconda ragione non è nel corpo, ma nel cervello umano, infarcito com’è di risorse per riconoscere valutare e apprezzare il comportamento dei nostri conspecifici. I robot umanoidi si fanno per così dire un giro gratis sui moduli del cervello deputati alla psicologia e alle interazioni sociali. Sorridendo, tendendo la mano, parlando sottovoce, si fanno benvolere; gridando e agitandosi ci minacciano e spaventano.

Il futuro della robotica per le masse sembra quindi risiedere nel sottile dosaggio di parametri che creano una illusione di umanità nel cervello degli utilizzatori – o delle vittime. Sono molti i laboratori che puntano sull’«illusione dell’umano» – un termine che preferisco a quello assai ambiguo e tendenzioso di «umanizzazione», il quale suggerisce che si possa creare una specie di anima sintetica e insufflarla in quei mucchio di cavi e di pulegge. (Illusione è; mucchio di cavi il mucchio resta, anche se sul suo schermo compare uno smiley.) Una serie di ricerche recenti di Friederike Eyssel, psicologa sociale dell’università di Bielefeld è particolarmente sistematica nella sua esplorazione delle caratteristiche che ci fanno ritenere “umano” un robot, sottolineando in particolare gli aspetti che riguardano la psicologia sociale, e ancor più in particolare le incarnazioni robotiche del genere (femminile/maschile). Si è visto che gli elementi del contesto, la psicologia degli utilizzatori, e certe caratteristiche dei robot influiscono su questa percezione; ma il fattore dominante sembra essere di gran lunga il tipo di compito che il robot svolge. L’interazione con un robot elettricista viene facilitata se questi ha una voce maschile, ostacolata se la voce è femminile; e viceversa: la voce maschile rende meno accettabile l’interazione con l’assistente robotico alla persona (infermiere e cameriere), che è invece fluidificata da un voce femminile. Altre caratteristiche come i tratti del volto o il tipo di gesti hanno effetti simili.

Tutto questo è certamente molto interessante anche se certamente non è specifico dei robot. Dopotutto gli esperimenti della Eyssel utilizzano come stimoli non dei robot in carne ed ossa (si fa per dire) ma immagini animate di robot: che potrebbero essere anche immagini di bambole, pupazzi o di avatar. Interessante il fatto che gli stereotipi di genere si propaghino al di fuori delle interazioni tra gli esseri umani. Gli stereotipi sono dei veri e propri “acceleratori inferenziali”, ed è per questo che ce li portiamo appresso come pesante eredità dell’evoluzione; quando incontriamo una persona, classificarla come maschio o femmina ci mette subito a disposizione un vasto repertorio di idee preconcette che ci evita la fatica di pensare, indagare, sondare.

A dar retta a Eyssel, i progettisti dei robot di domani cercheranno quindi sfruttare ulteriormente il nostro cervello di utilizzatori dei robot – questa volta il cervello categorizzante, che si nutre di stereotipi e scorciatoie varie. In soldoni, troveremo più accettabile il robot che ci assisterà da anziani se avrà una voce femminile, dei tratti femminili, un’apparenza femminile.

Non dobbiamo nasconderci i problemi connessi a questa che, in fondo, è un’operazione di marketing – su cui l’industria punta oggi per rendere “accettabili” i gadget di domani. Infatti l’uso massiccio degli stereotipi non farà che rinforzare a sua volta gli stereotipi, e non vedo molto spazio per la vendita di robot progressisti o politicamente corretti.

Al tema dell’illusione di umanità dei robot fa da contraltare un altro soggetto della ricerca della Eyssel, l’infraumanizzazione o de-umanizzazione degli esseri umani, ovvero il trattare in certe circostanze le persone come men che persone, come cose, esseri di serie B, reietti, paria. Trattarle come zombie o, diciamolo pure, come robot. Anche qui mi pare che sarebbe utile fare attenzione al vocabolario: come dovremmo parlare di un’illusione di umanizzazione per i robot, sarebbe bene parlare anche di un’illusione di de-umanizzazione per gli esseri umani. Non si possono veramente de-umanizzare le persone, ma certo ci si può facilmente convincere che alcune persone siano men che esseri umani. Chiamare questo convincimento un’illusione potrebbe aiutarci a vederne la natura sinistra.

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