Cultura

Nabucco spoglio ma non radicale

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Musica

Nabucco spoglio ma non radicale

Niente cavallo. Niente processioni. Niente pepli. La nuova produzione del Nabucco che ha inaugurato la stagione estiva dell’Opera di Roma, alle Terme di Caracalla, conferma la linea impegnata delle regie del teatro della Capitale. Ieri titolo risorgimentale, oggi Nabucco può raccontare simbolicamente lo strazio della storia contemporanea: brandelli di muro, fumo come dopo un bombardamento, e il Va’ pensiero dietro a un muro di grate metalliche, intenso, lungo tutto il palcoscenico.

Così vuole Federico Grazzini, giovane regista di scuola Piccolo Milano, dove l’imprinting Strehler-Brecht esce ancora evidente. Per certi versi, qui, anche affettuosamente datato, perché Nabucco in chiave nazista, con Abigaille trasformata in odiosa guardia della Gestapo, col cappottone e gli stivaletti militari, e i prigionieri ebrei con le divise da campo di concentramento, non è idea nuovissima. Ma lo è a Caracalla, dove – come in tutte le platee all’aperto – per tradizione prevale un’idea esornativa di teatro. Virare su un’altra strada, come già l’estate scorsa con la Butterfly baby prostituta contemporanea, testimonia una ricerca di verità, di valori profondi.

Tuttavia non è l’assenza di trionfi e sfarzosità a lasciare perplessi, quanto la retorica del realismo, che finisce per diventare decorativa. Nel Va’ pensiero, appunto, la parata dei coristi immobili, in piedi, icona di ogni prigionia, va subito a segno, emotivamente, appena il brano musicale attacca. Sussurrato intenso, timbricamente in perfetto equilibrio, come insegna da sempre Roberto Gabbiani: ne restiamo tutti irretiti. Peccato però che dopo qualche battuta i prigionieri inizino a muoversi, a brancicare con le mani aggrappandosi alle grate. E peccato che quelli che si sbracciano di più siano delle comparse, che dunque non aprono bocca e mimano solamente, rompendo la compattezza da pittura sonora dell’assieme.

Se spoglio e radicale vuole essere, Nabucco deve essere coerente. Non può cedere alla tentazione delle marcette coreografate (a tempo sulla musica, ahi, sempre un errore, doppio con Verdi) con giochi di lance improbabili, intrecciate in graziosi archi per il passaggio della onnipresente Abigaille. E Nabucco un minimo di solennità all’inizio la deve mostrare: se giustamente si rinuncia all’entrata a cavallo, l’altezza fonica la si deve inventare. Per fortuna qui la voce di Luca Salsi è talmente bella che si staglia nella mischia del palcoscenico: incisiva, piena, tornita, potente e fresca, va subito a riempire la scena. Così canta il baritono. Lo avevamo quasi dimenticato, subissati da baritoni-attori o baritoni-belanti.

La corretta identità di questa voce restituisce in pieno il disegno drammatico di Verdi, che vuole un Nabucco eroe. Sfrontato, oltre il limite. Proprio per questo poi all’opposto abissale nel delirio. Nell’umiliazione e nella redenzione finale. Sempre un gigante, comunque, sotto qualsiasi punto di vista. Salsi ne tornisce ogni dettaglio, con salda autorevolezza. E che meraviglia vedere finalmente passi veloci, gesti non senili. Altrettanto centrata è la vocalità di Csilla Boross, Abigaille tagliente e smerigliata. Molto più interessante lei della pallida Fenena di Alisa Kolosova, strenuamente protetta da un tenore di gran bello smalto, l’Ismaele di Antonio Corianò. Il basso Vitalij Kowaljow, Zaccaria, sfoggia meglio la parrucca candida della pronuncia italiana.

Tutti, giocoforza, sono amplificati. Il cielo aperto lo esige. Peccato per la qualità del suono. Ma peccato anche per la genericità della direzione di John Fiore, che ottiene tutti i difetti (attacchi sporchi, ottoni non intonati, accompagnamenti inespressivi) della brutta tradizione dell’opera italiana.

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