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Non possiamo non dirci colpevoli

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Non possiamo non dirci colpevoli

Senza perifrasi. Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura
Senza perifrasi. Nadine Gordimer, premio Nobel per la letteratura

Splendido il racconto, molto breve, intitolato Il saccheggio con cui si apre la raccolta omonima di Nadine Gordimer, la scrittrice sudafricana premio Nobel per la letteratura 1991. Vi si narra di un cataclisma che ha sconvolto la superficie terrestre, provocando l’arretramento delle acque. Sul letto degli oceani affiorano miriadi di resti della nostra cosiddetta civiltà: «Navi naufragate, candelabri di sale da ballo, forzieri di pirati, schermi televisivi, furgoni postali, fusoliere di aerei, busti di marmo, kalashnikov, acquasantiere, lavastoviglie…». Tra i testimoni di quell’evento drammatico c’è un uomo qualunque, uscito forse dalle pagine di Musil, che ha sempre desiderato una sola cosa nella sua scialba vita, ma non sa bene che cosa. E, nella sua meccanica ricerca sul fondo riemerso, trova uno specchio, un banale specchio in mezzo a quella spaventosa vastità di testimonianze di una cultura decaduta. Quell’uomo è un sopravvissuto; e nello specchio ritrovato vede tutte le atrocità del Potere, tutti gli assassinii delle dittature liberticide (fino a quelli dei “desaparecidos” gettati da un aereo in mare). E vede anche se stesso, testimone e complice di tutto.

Gordimer è una scrittrice forte, incisiva, poco incline alle perifrasi. La sua stessa vita lo dimostra: figlia di un immigrato russo-ebreo e di un’inglese laica, attivista e fondatrice di un asilo per neri nel Sud Africa dell’apartheid, ha conosciuto fin da bambina le irruzioni punitive della polizia nella sua casa alla ricerca di prove incriminatorie. Il suo esordio ufficiale come narratrice è stato nel 1953, con il romanzo I giorni della menzogna, che ritrae, a livello autobiografico, l’aprirsi al mondo “diseguale” del Sudafrica di una ragazza nata all’ombra d’una miniera d’oro, terra di sfruttamento. Cui hanno fatto seguito opere di alto livello etico-sociologico come Un mondo di stranieri (1958), Il conservatore (1974) e La figlia di Burger (1979), che narra un’altra presa di coscienza sulla via dei diritti umani, quando la protagonista Rosa, il cui padre è Lionel Burger, avvocato “afrikaaner” perseguitato per la sua lotta all’apartheid, assume l’identità della “figlia di un uomo discriminato”, appropriandosi definitivamente della realtà storico-politica del suo paese. Gran parte dei romanzi di Gordimer, va ricordato, sono stati messi al bando subito dopo la loro pubblicazione, almeno fino a quando, con l’avvento di Mandela, di cui la scrittrice è stata sponsor e consulente, il Sudafrica l’ha integrata tra i suoi benemeriti.

I racconti de Il saccheggio (2003) sono inediti in Italia. Scritti da una Gordimer ormai ottantenne, essi ben si prestano ad una lettura riepilogativa dei principali motivi della sua narrativa: il peso coloniale, lo sfruttamento dei deboli, l’assurdità dell’amore che viene spesso spazzato via dalla Storia, l’erotismo come linguaggio universale, lo scontro fra razze. Lo notiamo bene, per esempio, in Come da protocollo, dove Roberta Blayne, una donna di mezza età responsabile dei Progetti umanitari per il Terzo Mondo, finisce coinvolta in un ambiguo gioco delle parti fra «benefattore e beneficiario». Infatti, sullo sfondo di un abile intrico internazionale di aiuti e di cooperazioni “vendute” al miglior offerente politico, Gordimer innesta una toccante vicenda personale in cui, alla fine, l’illusione di un amore disinteressato (Roberta si invaghisce di un governativo africano corrotto) si infrange contro insormontabili differenze culturali fra i bianchi e i neri.

In Conflitto generazionale, per fare un altro esempio, a prevalere è il gap tra padri e figli (altro motivo caro alla Gordimer). In questo caso un rapporto famigliare fatto di indifferenza si tinge di tenerezza allorquando l’anziano genitore annuncia alla sua numerosa prole sparsa in giro per il mondo che lascerà la loro madre dopo 42 anni di matrimonio per una donna molto più giovane, che fa la violinista. Sarà questo fatto inaspettato a creare i presupposti per una ri-costruzione della famiglia che prima era totalmente inimmaginabile. In Somiglianze, infine, assistiamo ad un evento simbolico inquietante: in un raffinato campus universitario fanno la loro comparsa strani individui, sorta di barboni abituati a vivere ai margini della società, che a poco a poco sembrano impossessarsi di quel tempio della cultura (e della falsità). Sino a quando, incomprensibilmente, l’élite universitaria — i migliori docenti dei corsi — si mescola con quei diversi, assumendone le abitudini e le sembianze, in ottemperanza all’assioma che «la pace deve esser difesa, ma stando assieme a quelli che ti minacciano, perché è l’unico legame che ti resta».

E qui ritroviamo la Gordimer più provocatoria, quella che, in ultima analisi, ti dà un pugno nello stomaco attenuato solo da un sussurro di poesia.

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