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Archeologia in fiore

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verdeggiando

Archeologia in fiore

Il fiore dell'Amni visnaga. Nei paesi arabi è detta khella, già gli antichi egizi la utilizzavano a scopo terapeutico
Il fiore dell'Amni visnaga. Nei paesi arabi è detta khella, già gli antichi egizi la utilizzavano a scopo terapeutico

Tra tutte le arti, quella dei giardini è la più effimera, d'accordo. Ma per quanto riguarda la botanica, e le sue vestigia, non possono forse queste, con continuità di discendenza, arricchire a pieno diritto la memoria storica? Sono domande che un giardiniere in vacanza non può fare a meno di porsi. A Mozia, per esempio, l'isolotto al largo dello stagnone di Marsala sede del villino pensato da Giuseppe Whitaker per custodire i reperti archeologici ivi rinvenuti, primo tra tutti il giovinetto eponimo, mi sono imbattuta nella splendida ombrella fiorita di Amni visnaga: quella stessa pianta che nei paesi arabi è detta khella, i cui steli essiccati fungono in Oriente da stuzzicadenti, e già gli antichi egizi utilizzavano a scopo terapeutico, principalmente per i calcoli renali.

Che sia arrivata a Mozia dal delta del Nilo da cui la dicono originaria, con le navi dei fenici che nell'isolotto avevano stabilito la loro colonia? Sta di fatto che questa sontuosa pianta amante, come rivela il nome Amni, dei suoli sabbiosi, è forse l'unica discendente viva sopravvissuta tal quale da quei tempi lontani.
Con la sua statura di quasi un metro e mezzo, le grandi foglie grigio verde e i fusti che irradiano in un centinaio di fioriture bianche, troneggia tra le altre essenze che rendono Mozia uno dei giardini più belli e originali del Mediterraneo, con quel movimento apparentemente casuale di carrubi e cipressi, mirti e lentischi, filliree e terebinti, pini di Aleppo, cisti e aloe spinose dai fiori corallini, knautie dall'insolita corolla bianca.

A estate inoltrata, quando ormai ogni petalo è caduto, restano spirali di chioccioline bianco gesso incollate a steli ormai secchi, delicate quanto fioriture di gaura. Le chioccioline, a dire il vero, sono un leitmotiv in queste coste riarse, da Selinunte – dove, sorpresa delle sorprese, svetta un albero delle matite (Euphorbia tirucalli) di dimensioni quasi arboree – fino a Cusa Segesta e all'agrigentina Valle dei Templi. Qui sono tornati a verdeggiare, irrigati dalle acque della antica Kolymbetra, o piscina, un orto, un frutteto, un agrumeto, insomma: un giardino amorevolmente ricostruito anni fa da Giuseppe Barbera per il Fai.

Tra limoni e mandarini, fichi d'India monumentali e aranci curati e soprattutto irrigati dai giardinieri, sono meno frequenti le occasioni di incontrare specie caratteristiche dei terreni poveri. Ovvero quella che i botanici chiamano “flora ruderale”: un termine che rende assai poco lo splendore di quella vibrazione di vita e trasfigurazione di luce tra resti altrimenti troppo perentoriamente pertinenti al passato. Questo pensavo aggirandomi tra le tombe rupestri alle spalle del teatro greco di Palazzolo Acreide, ingentilite da acanti, carote spontanee sbocciate in trine di un raffinato bianco opaco e luminosi cardi gialli. Talmente aggraziate da suggerire che la funzione delle magnifiche rovine fosse incorniciare degnamente le tanto più umili piante.

Scendendo – accompagnata come d'obbligo dalla guida – verso i cosiddetti Santoni (meglio sarebbe dire Santone, trattandosi di raffigurazioni, uniche in Europa, legate al culto della Dea Cibele) mi rallegravo cammin facendo per la ricchezza della vegetazione. Finché la guida non si è scusata per la presenza di tutte quelle erbacce. Inorridita al pensiero del ripulisti incombente, quasi pronta a impetrare grazia per quelle meravigliose creature senza le quali nessuna pietra conserverebbe il suo fascino, ho poi ritenuto meno avventato ricordare alla mia guida la trista storia del Colosseo.

Nel suo Flora of the Colosseum del 1855, il botanico Richard Deakins catalogava ben 420 varietà di piante: decine e decine tra graminacee e leguminose di vario genere, lecci e cipressi, ma soprattutto una moltitudine di fiori selvatici tra cui alcuni rarissimi in Europa. Deakins ipotizzò fossero i discendenti dei semi caduti dalle pellicce degli animali arrivati dall'Africa o dalla Persia come feroci avversari dei gladiatori. Tutte piante, quindi, che, lasciate stare, avrebbero prestato servizio di memoria storica non meno di mura e arcate. Invece, con la breccia di Porta Pia, ecco arrivare gli archeologi a mettere tutto in ordine, strappare ogni rametto e stelo d'erba, cancellando ogni traccia di quell'unicum nella storia della botanica, e togliendo qualsiasi sapore di vita alla ormai spoglia ellisse.

Come è successo anche alla terme di Caracalla, ridotte in uno stato talmente asettico che, osserva Christopher Woodward in Tra le rovine (Guanda), non potrebbero certo più ispirare a Shelley il Prometeo liberato. Che orrenda sciocchezza, continuare a irrorare di diserbante ogni fessura! Spazzando via qualsiasi tessuto connettivo tra un reperto archeologico, il suo paesaggio e la sua storia. Che è quanto volle raccontare D.H.Lawrence in Etruscan Places, cronaca provocatoria di un pellegrinaggio, in epoca fascista, attraverso quanto restava della civiltà spazzata via dai romani, e dove non appaiono meno significative delle necropoli le diverse tonalità degli asfodeli di luogo in luogo – da un tenero giallo etneo a un bianco greco di fulgida brillantezza – come pure un certo anemone che forse cresce solo a Tarquinia: coi petali grandi e il pistillo gonfio e arrossato, di un rosa pallido ma il centro della corolla rosso scuro.

Christopher Woodward, «Tra le rovine. Un viaggio attraverso la storia, l'arte e la letteratura», Guanda, pagg. 254, € 16,00;

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