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Dossier Corpo a corpo con un secolo belva

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    Dossier | N. 2 articoliAddio a Pia Pera la scrittrice giardiniera

    Corpo a corpo con un secolo belva

    Osip ĖMil’evič Mandel’štam in una foto scattata nel 1914, quando aveva 23 anni
    Osip ĖMil’evič Mandel’štam in una foto scattata nel 1914, quando aveva 23 anni

    Mi lavavo di notte nel cortile -
    il firmamento splendeva di rozze stelle.
    Raggio stellare – come sale su ascia,
    piena fino all'orlo la tinozza gela.
    Chiuso con la spranga il portone
    e la terra in coscienza severa, -
    impossibile cercare verità più pulita
    dell'ordito di tela lavata di fresco.
    Si scioglie nella tinozza, come sale, una stella, e l'acqua ghiacciata è più nera, più pulita la morte, più salata la disgrazia, e la terra più vera e paurosa.

    (Poesia Osip Mandel'štam tradotta da Pia Pera)

    A chi inverno porta: grappa e occhio azzurro di punch, A chi: vino fragrante di cannella, A chi: decreti salati di crudeli stelle Da sopportare nell'izba fumosa.
    Un po' di sterco tiepido di gallina
    E di ottuso calore ovino;
    Tutto darei per la vita – ho bisogno di premure - Basterebbe uno zolfanello, per scaldarmi.
    Guarda: in mano non ho che un vaso d'argilla, E stridio di stelle solletica il debole orecchio, Ma il giallo dell'erba e il tepore della terra Impossibile non amarli da questa trapunta misera.
    Carezzare piano la lana e smuovere la paglia, Affamato come d'inverno un melo sotto la stuoia, Volgersi con tenerezza insensata a un estraneo, E frugare nel vuoto, e attendere con pazienza.
    Si affrettino pure i congiurati sulla neve In gregge di pecore, e scricchioli sottile la crosta, A chi inverno: assenzio e fumo acre per la notte, A chi: sale duro di offese solenni.
    Oh, poter issare la lanterna in cima al lungo bastone, Partirsene con il cane sotto il sale delle stelle, E nel cortile andare dall'indovina con un gallo in pentola.
    Ma la neve bianca, bianca, morde da far male gli occhi.

    (Poesia di Osip Mandel'štam tradotta da Pia Pera)

    A lungo Mande l'štam è stato per me pochi versi, sempre gli stessi: mi lavavo di notte nel cortile, il firmamento brillava di rozze stelle, tà ta tà ta … l'ascia sul secchio, tà ta tà ta … ghiacciato … più vera… Qualcosa di ipnotico, frammenti di versi. Più che una poesia, un'immagine, un fotogramma. Di quale film? Chi è quest'uomo che si lava di notte nel cortile, d'inverno, e perché la lama di un'ascia sulla tinozza colma d'acqua ghiacciata? Le tinte erano scure, notturne, brune. Marrone e acciaio. Ma anche: luce purissima di stelle. Una notte immensa, bucata da freddo di diamanti. In questa immagine avvertivo un sapore di prigionia. Di campo di lavoro. Un uomo si lava di notte, solo al mondo. Perché? Per anni è stato questo il mio Mandel'štam, insieme a frammenti di altre poesie, dove si diceva di un tempo feroce come una belva, della spina dorsale spezzata del secolo, si chiedeva come riunire in flauto vertebre disgiunte. Mi tornavano spesso in mente anche due parole – sexless malice - dalle memorie di Nadežda Mandel'štam, da me lette in inglese nella splendida traduzione di Max Hayward. Sexless malice , per quanto ricordavo, aveva a che fare con la crudeltà asessuata del tiranno, con la cattiveria che nasce dall'aver perso il contatto con l'eros, con l'energia dell'amore.

    La cattiveria del bigotto. O di chi ha scelto il potere invece dell'amore. Passano gli anni, quei versi continuano a suonarmi dentro. Che sia per la sensazione che potremmo ritrovarci un giorno in una notte storica come quella vissuta da Mandel'štam, in corpo a corpo con un secolo belva? Mi lavavo di notte nel cortile Mandel'štam lo ha scritto in Georgia, a Tiflis, all'inizio del settembre del 1921, dopo avere saputo della fucilazione di Nikolaj Gumilev accusato, pare senza fondamento alcuno, di avere partecipato a una cospirazione monarchica. Nikolaj Gumilev, racconta Nadežda, era l'unico vero amico di Mandel'štam. Non ce ne furono altri, dopo.

    L'assassinio di Gumilev suscita, in un lampo, un quadro del futuro: arresto, lager, deportazione, tirannia. Una chiara visione di quanto li aspetta tutti, in quel gruppo di amici. Versi che sono come un videoclip. Versi che rappresentano una svolta, scriverà Nadežda. Se mi tornano in mente con tanta insistenza, deve essere perché viaggiano portati dall'onda di quel lampo di luce. Non era, tuttavia, il cortile freddo di un lager, non ancora almeno. All'epoca Osip e Nadežda alloggiavano alla Casa delle Arti di Tiflis, una magione sontuosa ma priva di acqua corrente. Per questo nel cortile c'era una grande tinozza, veniva riempita ogni giorno d'acqua di fonte; Mandel'štam era solito lavarsi lì, la notte. Nei versi di Mi lavavo di notte nel cortile c'è tutto, denso come in un buco nero, quasi Mandel'štam evocasse una catastrofe astrale, la luce di una stella dissolta.

    Nadežda ne nota, nelle memorie, la densità: «In questi dodici versi, in modo incredibilmente compresso, è inclusa la nuova percezione del mondo di un uomo ormai maturo, vi si nomina quanto forma il contenuto di una nuova visione: coscienza, disgrazia, gelo, terra veritiera e paurosa nella sua severità, verità come fondamento di vita; la cosa più pura e diretta a noi data - morte e rozze stelle nel firmamento celeste». Dodici versi: come il titolo del libro che da bambina sfogliavo nella biblioteca di mio padre, forse il primo incontro con la poesia russa: i Canti bolscevichi (Dvjenadzat') di Aleksandr Blok pubblicati a Milano nel 1920 da R. Quintieri, un volumetto grigio con incollato il disegno a carboncino, siglato M.L. (Michail Larionov), di due soldati dell'Armata Rossa in marcia, facce inquietanti di fantocci. La notizia delle morte di Blok, nel 1921, aveva raggiunto Mandel'štam insieme a quella dell'uccisione di Gumilev, e lo aveva egualmente sconvolto.

    È di trocheo, il ritmo d'attacco del poemetto di Blok del 1918. Čérnyj vèčer bèlyj snèg , sera nera neve bianca. Trochei come nei dodici versi di Mandel'štam, dove la tinozza d'acqua scura in cui annega la stella si trova in un cortile dal portone chiuso. Dove la morte è avvertita pulita, senza ornamenti e da nulla addolcita. Anzi: la stella stessa è sale, sale che si scioglie, sale che brilla sull'acciaio affilato di un'ascia, sale della disgrazia. Sale, come in Dante, che è il sapore dell'esilio. Mandel'štam in quel cortile usava un asciugamani portato dall'Ucraina. L'ordito essenziale di quella tela grezza ha impresso, puro, un disegno, qualcosa che somiglia a un destino, alla forma di cose a venire. Se il trocheo funge da misura dell'agnizione di realtà nude e crude, suggerendo il ritmo martellante e quasi militare di atti brutali come la fucilata e l'accasciarsi a terra del poeta (colpo, caduta), il giambo (un inizio di movimento, un passo in avanti) è il ritmo più dolce e intimo e cantante di A chi inverno .

    Se Mi lavavo di notte nel cortile è il buio e il gelo della morte, A chi inverno è il poeta nella sua fragilità umana, intento a cercare scampo ad algidi decreti astrali nell'intimità rassicurante di cose amiche. Il vino caldo fragrante di cannella, lo sterco tiepido dei polli, il calore animale delle pecore, la fiamma di uno zolfanello, un vaso d'argilla, la premura di chi ti vuol bene. E vorrebbe proteggerti dallo stridio ostile delle stelle, dalla neve accecante, dall'amaro assenzio, dal fumo acre, dai decreti salati di stelle crudeli. Come la carestia di quel terribile inverno tra il 1921 e il 1922, la repressione della rivolta di Kronštadt nel marzo 1921, la violenza della guerra civile, le congiure tirannicide. E così via. A tutto questo Mandel'štam oppone un “ellenismo domestico”.

    Come scrive in La natura della parola , breve prosa composta in questo stesso periodo, «Ellenismo è la pentola sulla stufa, le molle vicino al fuoco, la brocca del latte, sono le suppellettili casalinghe, le stoviglie, tutto quanto circonda il corpo; ellenismo è il calore del focolare avvertito come sacro, qualsiasi cosa ci appartenga che metta in relazione una qualche parte del mondo esterno all'essere umano, un qualsiasi indumento poggiato sulle spalle dell'amata (…) Ellenismo è per l'uomo il fatto di circondarsi consapevolmente di utensili anziché di oggetti indifferenti, di trasformare questi oggetti in utensili, di umanizzare il mondo circostante, di riscaldarlo di un sottile calore teleologico. Ellenismo è una stufa accanto a un uomo capace di apprezzare nel suo tepore qualcosa di connaturato al suo stesso calore interno.

    Ellenismo, infine, è l'imbarcazione funebre dei defunti egizi, in cui si mette tutto quanto sia necessario a continuare il percorso terreno dell'uomo, fino alla fiala degli aromi, lo specchietto e il pettine». Non, quindi, il rosso acceso del sangue versato, il proclama urlato della rivoluzione, l'adunata di piazza, il corteo, e nemmeno l'aristocratico tirannicida, ma una sommessa dimensione domestica, tra cose amiche. Il focolare, gli utensili, la vita quotidiana di una donna e di un uomo. La cucina, la camera da letto. Tutto questo lo minacciano stelle ostili. Stelle paurose come quanto è asessuato, freddo, indifferente. Sexless malice . Cerco la citazione, il contesto, nelle memorie di Nadežda Mandel'štam.

    Nel primo volume, Hope against hope , nulla. Che me lo sia sognato? Finalmente, a metà guado del secondo, Hope abandoned , le trovo: «Per Mandel'štam asessuato significava privo di passione, indifferente, incapace di giudizi morali o di scelte, ignaro della vita come della morte, presente per sola inerzia e autodistruttivo. Nel mondo degli esseri umani – di uomini fedeli nell'amicizia, pronti a una stretta di mano nel momento del pericolo, e di spose intente a raccogliere le ceneri leggere dei mariti – tutto ciò che è buono e creativo è dotato di sesso, mentre tutto ciò che è morto o distruttivo è asessuato. Mandel'štam era convinto che la base della vita, l'origine del bene, e la luce superiore dell'amore andassero cercati nell'intimità di due persone, nell'amicizia tra gli uomini».

    E tornava di tanto in tanto sul tema di una morte fredda, solitaria, disumana. Come in certi versi del 23 aprile 1931, dove immagina di morire nel gelo di uno spazio asessuato. Nello spazio siderale, sotto i raggi di stelle ancora più asessuate, se possibile, degli angeli. La natura della parola porta come epigrafe alcuni versi del poeta e amico appena fucilato, Nikolaj Gumilev: “Ma noi abbiamo dimenticato che illuminata/ è solo la parola tra le cure terrestri, / e nel Vangelo di Giovanni / è detto che la parola è Dio. /Le abbiamo posto a limite/ i confini miseri della natura, /e come api in un alveare deserto /mandano cattivo odore le parole morte.” Nel 1912 Gumilev, insieme a Gorodeckij, aveva fondato una nuova scuola poetica, l'acmeismo, cui avevano aderito Anna Achmatova, Narbut, Zenkevič e lo stesso Mandel'štam. “Via dal simbolismo, lunga vita alla viva rosa” era stato il motto iniziale.

    Ovvero: non più idee adombrate da parole-simbolo, parole sfibrate dal loro servire da ponti verso altri e oscuri lidi, ma parole-cosa, parole dense come immagini. Parole ricche di tenerezza e calore come nella concezione mandel'štamiana dell'ellenismo. Mi lavavo di notte nel cortile, pubblicato a Tiflis nel dicembre 1921, sarebbe dovuto uscire nella primavera del 1922 anche su una rivista di Charkov accompagnato da A chi l'inverno . Lo proibì un segretario di partito: dopo avere richiesto di visionare le bozze, si era indispettito per versi dove si parlava di ordini salati di stelle crudeli e di raggi come sale sull'ascia. E si era messo a urlare: «Che razza di sale? Cosa c'entra qui l'ascia? Non ci capisco niente! Cosa dirà Lenin?»
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